Correva l’anno 1972 quando le poltroncine rosse delle sale cinematografiche erano piene di spettatori pronti a gustarsi sul grande schermo un capolavoro firmato Bernardo Bartolucci: Ultimo tango a Parigi.
Film “costato” non poco al regista, che fu condannato a scontare mesi di detenzione per oltraggio al pudore con le sue scene erotiche e sfacciatamente spudorate.
Marlon Brando e Maria Schneider, i due interpreti che rappresentano tramite una figura retorica, un’allegoria, l’incomunicabilità e la condizione di isolamento a livello esistenziale che grava sull’umanità e sul suo destino.
Sostanzialmente, la storia narra della passione sfrenata, selvaggia, furente tra i due protagonisti che sono due perfetti sconosciuti.
Bartolucci vuole dirci che forse, in fin dei conti, gli esseri umani non possono comprendersi davvero nel profondo e conoscersi in modo intimo. Neanche il sesso può bastare. I due protagonisti, paradossalmente, non sanno niente l’uno dell’altro, nemmeno il loro nome. Due sconosciuti, uniti dal sesso, durante l’atto, come in un’unica presenza, consapevoli dei segreti che si portano dietro.
Il sesso è un simbolo di ribellione al conformismo della realtà circostante, la voglia di evasione un po’ per perdersi, un po’ per ritrovarsi.
Questa potente vicinanza fisica che lega i due, si oppone antiteticamente alla distanza interiore che hanno, intima, spirituale, profonda e sempre più incolmabile.
Esseri umani sbandati, scombinati, alla deriva che cercano una via di fuga e non la trovano se non nell’evasione e nella trasgressione, sin alla più cruenta. Il film straripa di riferimenti. Quando la pellicola è appena iniziata, la macchina da presa inquadra dall’alto Marlon Brando in preda alla disperazione che mima L’Urlo di Munch.
E allora impossibile non citare anche i quadri di Francis Bacon durante i titoli di testa, precisamente Ritratto di Lucian Freud e Studio per un ritratto di Isabel Rawsthorne. I due dipinti, visti dal regista di persona prima di iniziare le riprese del film, che lo colpirono a tal punto da condividerne la visione con il direttore della fotografia Vittorio Storaro, rappresentano due personaggi soli e solitari, deformati e rovinati dalle loro pulsioni più recondite.
Il film con i suoi quadri, le sue fotografie, le sue immagini, la sua iconografia, si prefigurava già con una tendenza verso un potente impatto visivo
Il mondo interiore e l’ambiente circostante non sono in equilibrio, c’è conflitto, irrisolutezza. Vige la legge del desiderio, della bramosia, della ricerca del calore di un’emozione, giusta o sbagliata che sia. Le luci, i colori, i vetri mai trasparenti, i suoni, le melodie distorte, i muri, il lenzuolo bianco che verrà trovato nella casa dove si consumerà la passione tra i protagonisti, gli stipiti delle porte come a voler dividere sempre i due che non sono mai davvero uniti se non forse dal sesso, anche quando si trovano all’interno della stessa inquadratura. Disperazione, liberazione, sensi di colpa, tempo che passa, giovinezza perduta e giovinezza acerba, ossessioni, contrasti.
Nessun dettaglio è lasciato al caso, ogni cosa va letta attentamente per poter capire il significato di un film che, oltre a condannarlo, ha consacrato un regista come Bernardo Bartolucci.
Un film da studiare, da capire con occhio attento e consapevole, non solo da guardare, per poterlo assaporare fino in fondo, godendo dell’arte, della storia e dei significati preziosi di cui ci fa omaggio.
bella analisi