Tutte le spine di Elly Schlein

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Il successo inatteso di Elly Schlein racchiude, da un certo punto di vista, alcuni importanti messaggi che l’attenzione mediatica, indirizzata principalmente verso la persona della candidata stessa, in qualche misura hanno occultato. Certamente è molto importante che Elly sia una donna, perché finora nessuna donna ha occupato la segreteria del PD. Colpisce il fatto che lei e la sua antagonista premier siano al centro della scena politica. Elly, poi, ha rivendicato apertamente la sua diversità di genere, facendo un outing molto spontaneo e sincero. Le sue origini ebraiche, la sua nascita in Svizzera, il fatto di essere figlia di un padre americano colpiscono l’opinione pubblica, perché il personaggio fuoriesce dalle tradizionali routine. La freschezza giovanile e la sua quasi adolescenziale determinazione la rendono inattuale in senso nietzscheano, perché siamo abituati a una politica filtrata da una coltre di ambiguità e tatticismi.

D’altro canto, la figura dello stesso Bonaccini non può essere letta con un taglio puramente politico, quello che una volta si sarebbe detto derivare dalla “politique politicienne”, attribuendogli una connotazione passatista. Il recente riconoscimento del valore di una donna politica avversaria, come la premier Meloni, la quale si sta muovendo con molta ponderazione (inimmaginabile prima delle elezioni), gli ha fatto onore, anche perché è uscito da uno schema di contrapposizioni stereotipate e predeterminate. Non è stato quel riconoscimento a determinare la sconfitta di Bonaccini, che comunque è uno dei leader più prestigiosi del partito, la cui proposta politica appare pur sempre razionale e fondata. Egli, inoltre, è un uomo ancora giovane, seppur meno giovane della concorrente. Dunque, non sono questi gli aspetti centrali della vicenda. La contrapposizione tra Schlein e Bonaccini non può essere letta nei termini “gioventù versus maturità” e neppure tramite la dicotomia di un’identità fortemente di sinistra e di una moderatamente di sinistra (seppur sia lecito collocare le rispettive proposte politiche dei due candidati anche in una prospettiva di maggiore o minore radicalità).

Credo che la questione di fondo su cui ruota l’intera vicenda sia quella della natura dei partiti. In altri termini, nella prospettiva di chi è andato a votare, la posta in gioco era quella della natura del partito, se “aperta” o “chiusa”. Ciò che interessava era quale dei due contendenti avrebbe dato maggiore garanzia di apertura del partito oppure, rovesciando il senso della domanda, chi dei due, con maggiore probabilità, si sarebbe inserito nella scia di continuità dell’attuale PD, mantenendo la struttura organizzativa e il personale preesistente. La risposta al quesito è stata netta: la possibilità di cambiare il partito nel senso della sua apertura all’esterno si fondava, più che sulla proposta politica della Schlein, sulla stessa figura di quest’ultima, perché eterogenea rispetto all’apparato e esterna alle logiche organizzative finora dominanti. Bonaccini, quindi, ha avuto un solo torto: quello di apparire come colui che avrebbe riavviato il motore di una macchina, senza preoccuparsi di restaurare la carrozzeria e di revisionare la meccanica.

In un articolo del 6 febbraio scorso, Sabino Cassese, sul Corriere della Sera raccontava che nei primi anni di vita della Repubblica andava a votare il 90% per cento della popolazione e gli iscritti ai partiti erano più dell’8 per cento. I partiti erano associazioni radicate nella società, organizzazioni talvolta di grandi dimensioni, ma dotate di vitalità. Oggi sono comitati elettorali prigionieri della personalizzazione e talvolta negano perfino il nome di “partiti”, preferendo definirsi come “movimenti”. Una volta discutevano di grandi temi, come la nazionalizzazione elettrica, la scuola media dell’obbligo, il servizio sanitario nazionale, ecc. Oggi i partiti sono prigionieri di tematiche derivanti dall’agenda setting quotidiana. Non c’è più il contributo degli intellettuali all’elaborazione delle proposte politiche, che derivano invece dai sondaggi.

Essi sono sempre più autoreferenziali e, se da un lato cercano consenso, dall’altro stanno bene attenti a non coinvolgere gente esterna, che non appartiene all’apparato e non è stata cooptata. Pochi partiti indicono i congressi, ancora meno sono quelli che indicono assemblee degli iscritti. Gli iscritti sono utili per il consenso, ma è meglio che stiano zitti e non disturbino i conducenti.

L’attuale stato delle cose, per ciò che riguarda i partiti, era già stato previsto dai sociologi del primo Novecento, che avevano definito “la ferrea legge dell’oligarchia” per indicare quel processo di selezione dei militanti che, a fronte delle esigenze organizzative del partito stesso, finiva per coinvolgere nella gestione solo coloro che avevano acquisito dimestichezza con le esigenze dell’apparato. La politica, infatti, come molti altri settori della vita sociale e lavorativa, richiedeva una sempre maggiore specializzazione e professionalità. Ma oggi tutto questo ha portato alla chiusura dei partiti nei propri fortilizi, innescando dinamiche impraticabili per i non specialisti. Già, ma a furia di vietare l’ingresso ai non addetti ai lavori, le persone hanno cessato di interessarsi alla politica e bussare alla porta dei partiti. Questo spiega l’elevato astensionismo: il 60 per cento nelle recenti elezioni regionali in Lazio e Lombardia.

Poiché il successo elettorale si misura in percentuali e non con il valore assoluto dei voti ricevuti da ciascuno di essi, poco importa che vi sia un astensionismo così elevato. Ma va da sé che le cose non potranno continuare così a lungo, perché ne va dello stesso sistema democratico. Pertanto, è probabile che la Schlein, indipendentemente dal suo programma politico, abbia vinto le primarie del Pd perché divergente rispetto all’apparato, perlomeno più esterna ad esso di Bonaccini.

Molti dirigenti del PD si allontaneranno. Fioroni, già ministro dell’Istruzione, ha annunciato da qualche giorno che se ne andrà e altri seguiranno, ma il Terzo Polo non ha da gioire, perché i dirigenti che proverranno dal PD non favoriranno la crescita dei voti, né del consenso. Essi sono semplicemente alla ricerca di una nuova occupazione e la gente l’ha capito.

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