Social media e politica: un rapporto perverso

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di Alessandro Artini

Per quelli come me, nati intorno alla metà del secolo scorso, non è facile capire la molteplicità delle forme in cui si declina oggi la politica. L’astensionismo registrato nelle recenti elezioni amministrative, che è uno dei dati dominanti, induce a pensare a un allontanamento dalla politica di una parte sempre più consistente di popolazione, che sarebbe disamorata o, peggio ancora, delusa e sdegnata verso di essa. Certamente questi stati d’animo sono presenti in una larga fascia di cittadini, ma forse questo è solamente uno dei volti della politica.

Ovviamente c’è anche chi non condivide una tale chiave di lettura, come Antonio Polito, secondo il quale, dietro all’astensionismo, è valsa, sì, la ripulsa verso le intemperanze vaniloquenti dei vari protagonisti, ma soprattutto ha inciso il fatto che la posta in gioco di queste amministrative non fosse così significativa, che cioè le partite in corso non fossero fondamentali ai fini dello scudetto.

Tuttavia, se l’astensionismo è preoccupante perché colpisce uno dei diritti fondamentali, quello di voto, il cui esercizio, come suggerisce la Costituzione (art. 48), è anche un “dovere civico”, non possiamo ignorare i cambiamenti che stanno avvenendo in merito alle forme di comunicazione e di partecipazione alla politica, particolarmente quelle che riguardano il mondo giovanile. Sono proprio questi nuovi modi di attivismo che sfuggono agli occhi di quelli come me, che non appartengono al mondo digitale. Per questo, ho trovato interessante l’opera collettanea, curata da Claudio Riva, dal titolo “Social media e politica” (Utet, 2021). Essa consta di una serie di saggi scritti da vari autori, sociologi o esperti del settore.

Lo spazio pubblico, quello riservato all’opinione che appunto viene qualificata come “pubblica”, è sempre più mediatizzato, ovvero trattato con i formati, i criteri e le modalità di funzionamento delle istituzioni mediali come Facebook, Google, Instagram, Whatsapp, ecc.

Un cambiamento importante è dato dal fatto che le oligarchie ideologizzate del secolo scorso vanno declinando, mentre si affermano nuove élite tecnocratiche. Ovviamente gli investimenti in comunicazione crescono e prevale la componente d’immagine della politica, unitamente alla professionalizzazione della stessa. Luca Morisi, prima di cadere nella disavventura di droga ed escort, apparteneva alla categoria dei consulenti politici.

I leader sono sempre meno legati ai partiti stessi, ai loro programmi e alle loro residuali ideologie, e sono sempre più considerati come singoli individui. I social offrono la possibilità di far entrare il pubblico nella vita privata dei leader. Anzi la “personalizzazione” di questi ultimi cresce fino a produrre una vera e propria “intimizzazione”. Ciascuno di noi ha sicuramente in mente un politico che narra le proprie vicende sentimentali, per mostrare la sua appartenenza alla “categoria” della gente comune (recentemente Maria Elena Boschi).

La politica viene via via maggiormente “popolarizzata”, utilizzando i linguaggi e le tendenze della cultura popolare.

Essa, inoltre, si avvale della transmedialità, ovvero dell’uso di universi narrativi esterni alla politica stessa, come la serie di Games of Thrones, le cui immagini sono state utilizzate da Trump per rinforzare la propria. Il presidente, così, è diventato parte della gente comune. Del resto anche sul versante opposto, quello democratico, la candidata Hillary Clinton, allo stesso fine, ha usato le immagini di Will & Grace.

Qualche tempo fa, mi è capitato, su Youtube, di vedere un video in cui il Presidente Trump presentava la cantante Sia. Alcuni testi delle canzoni rock di quest’ultima sono piuttosto sensibili e profondi. Trump, che introduceva la cantante, mi ha sconcertato, perché la sua immagine mi appariva dissonante con quella di Sia. Mi rendo conto, però, che la cantante è stata un positivo “traino” mediatico per il Presidente, che mostrava di sapersi avvicinare al linguaggio artistico della musica, abbandonando, seppur momentaneamente, quello suo usuale, duro e provocatorio.

Ma i social hanno anche altre funzioni, come quello di “estrarre” i dati in loro possesso, relativi alle persone, in maniera tale da formare delle vere e proprie echo chambers, al cui interno “risuonano” solo informazioni coerenti con gli interessi della persona cui vengono inviate. Si creano così delle filter bubbles, grazie alle quali le persone sono esposte sempre meno a contenuti conflittuali. Tuttavia, all’interno delle bolle, si finisce per evitare il confronto con idee diverse dalle proprie.

L’erosione graduale della fiducia rispetto alle istituzioni e alla politica, infine, produce il fenomeno degli influencer, che suggerendo “consigli per gli acquisti” e pareri vari (si veda Fedez) colmano il vuoto della fiducia.

Ma l’elemento per me più importante è l’attivismo digitale, che, da un lato, comprende il ruolo politico degli influencer, in relazione a cause specifiche come #BlackLivesMatter, il revenge porn o la difesa ambientale e, dall’altro, include le generazioni dei più giovani, come i Millenials (nati a partire dal 2000), che sono decisamente hacktivist, cioè attivisti politici digitali. Questi giovani richiedono ai loro idoli di prendere posizione e, se questi ultimi non lo fanno, o prendono posizioni sbagliate, i Millenials applicano il meccanismo della sanzione, esprimendo dissenso o addirittura organizzandosi per promuovere posizioni corrette.

La mediatizzazione della politica, in questo modo, consente di generare e sviluppare il dibattito politico.

Per gli uomini come me, che appartengono al “secolo breve”, queste nuove modalità di “fare politica” sono del tutto estranee, ma sarebbe ingiustificato negarne l’esistenza. La politica attuale, dunque, non è solo astensionismo, ma comprende anche l’attivazione di una moltitudine di giovani, seppur con modi inediti. Forse essa è tutt’altro che destinata a scomparire, ma semplicemente a cambiare il suo volto.

 

 

 

 

 

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