di Alessandro Artini
D’acchito, la risposta spontanea potrebbe essere che essa serve all’istruzione e alla formazione dei giovani, ma la risposta, per non apparire superficiale, dovrebbe poi fare i conti con le parole “istruzione” e “formazione”. Ovviamente ciascuna delle due rimanda a pile di libri, scritti nei secoli da intellettuali di vario genere. Non potendo sintetizzare in poche parole quella che potremmo definire come una risposta pedagogica, mi limito a dire che istruire è un’attività che rimanda alla trasmissione delle conoscenze, mentre formare comprende un’attività educativa e cioè di comunicazione ed elaborazione dei valori.
In questi termini me la sono cavata con poche battute, ma già immagino lo “sdegno” critico di qualcuno che, a ragion veduta, potrebbe valutare queste mie considerazione come insufficienti, scorrette o semplicemente inopportune. E tuttavia, questa non è altro che la prima risposta, di natura pedagogica, alla domanda iniziale.
Infatti, la scuola, nel suo funzionamento, intercetta anche altri ambiti, che potremmo considerare come ricadute esterne all’ambito pedagogico. Il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, in un saggio di alcuni anni fa dal titolo “Investire in conoscenza”, considerato il fatto che in Italia il numero dei diplomati di scuola superiore è mediamente inferiore rispetto a quelli degli altri paesi europei (e non solo), osservava che un anno in più di istruzione scolastica, per la media dei lavoratori, potrebbe comportare un aumento “pari circa mezzo punto di percentuale” rispetto ai tassi di crescita, mentre, nel lungo periodo, si potrebbe determinare “un prodotto pro capite più elevato di cinque punti percentuali”. Sono gli effetti del cosiddetto capitale umano, teorizzato dall’economista Gary Becker, che ha conseguito nel 1992 il premio Nobel.
Molte persone negano il valore di queste esternalità di natura economica, perché l’idea che la cultura, in senso nobile, non debba sottostare a calcoli di natura venale è ancora molto forte. A questa posizione, corrisponde specularmente, in senso negativo, quella di coloro che ritengono che “con la cultura non si mangia” (come ha sostenuto un ministro di alcuni anni fa).
Tornando al quesito iniziale sul funzionamento della scuola, vi sono anche altre risposte, per esempio di natura psicologica o medica, come quelle cui è ricorso qualche giorno fa il Cts per motivare il ritorno alla didattica in presenza ed evitare la Dad (il che è improbabile…).
Ma, a mio avviso, le risposte che più contano, sono di natura civica e sociale.
Secondo un amico ricercatore svizzero, Norberto Bottani, la scuola dovrebbe rispondere principalmente a due istanze: la prima di efficienza, garantendo a tutti gli alunni di una certa età (a partire dai 14 anni) “un socle commun des connaissances et des compétences”, cioè un sapere comune per tutti i futuri cittadini; la seconda di equità, consentendo agli alunni più capaci di percorrere in senso meritocratico le tappe dell’educazione, fino ai più alti livelli accademici, e poi sfruttare le competenze acquisite nel mondo delle professioni.
Dal punto di vista dello “zoccolo comune”, i sistemi scolastici, quello italiano in particolare, lasciano molto a desiderare (qui bisognerebbe aprire una riflessione sulle politiche scolastiche dei sindacati e del ministero, che sono stati e sono i padroni della scuola); dal punto di vista della meritocrazia, che necessariamente implica una politica di pari opportunità (che merito c’è a vincere se, nella corsa dei cento metri, parto con il vantaggio di trenta metri?), le cose vanno ancor peggio. Ormai è noto che i percorsi degli alunni, nelle tappe scolastiche da loro raggiunte che poi si ripercuotono nella vita lavorativa, tendono a riprodurre le condizioni originarie delle famiglie in cui si è nati. In sostanza, chi proviene da una famiglia disagiata avrà poche probabilità di farsi valere, sia nell’istruzione sia nel lavoro, e chi, invece, proviene da una famiglia con i genitori laureati (in particolare la laurea paterna ha un alto valore predittivo) avrà molte più probabilità di laurearsi e affermarsi nel lavoro. Questo, generalmente, dicono gli studiosi di mobilità sociale.
Dunque, se la scuola non attua le due funzioni di efficienza e giustizia (“ascensore sociale”), a cosa serve? Da qui il titolo del saggio di Bottani, “Requiem per la scuola”, che rende esplicita la sua risposta.
Di tutto questo, generalmente, nella scuola non si parla, mentre si dibatte a pieni polmoni su come promuovere l’ennesima sanatoria per l’immissione in ruolo dei precari. Molti di loro sono bravi insegnanti e contribuiranno ai due funzionamenti della scuola. Ma non tutti. Quali sindacati difenderanno gli alunni da questi ultimi, da quelli cioè che non sanno fare il loro mestiere?
Bravo Sandrino, articolo interessante. Ma vorrei il tuo parere su una faccenda che e’ sfiorata in coda al pezzo. Secondo te che di scuola ne hai fatta e vista tanta e ormai sei una specie di prof. Aristogitone, la formazione degli insegnanti com e’? Ai nostri tempi di studenti i professori erano quasi dei dilettanti allo sbaraglio, si laureavano e entravano nel calderone della scuola…abbiamo visto i primi concorsi che in confronto ad oggi erano roba da ragazzi. Eppure c erano molti insegnanti culturalmente e umanamente validi, non tutti…specie dal punto di vista umano qualcuno era una belva. Ma questi di oggi sono migliori? Io ho l impressione che in Italia ci sia un problema generale: la formazione fatta più ‘ x i formatori e diventata businnes piuttosto che x chi deve formarsi. Esagero?