Per insegnare il latino a Pierino non basta conoscere il latino, bisogna conoscere anche Pierino…

1

di Alessandro Artini

Un amico mi chiede di parlare della formazione dei docenti. Trattandosi – come ho appena detto – di un amico, non posso non rispondere, ma il rischio che corro è quello di annoiare chi legge. Pertanto, mi scuso anticipatamente con chi leggerà questo articolo, perché la risposta non potrà non fare riferimento ad alcuni temi specifici del mondo della scuola, non particolarmente appassionanti per chi non ne fa parte.

Nella scuola italiana, quando il mio amico ed io eravamo giovani studenti (in un’altra era geologica), il criterio per definire un buon insegnante era la conoscenza della disciplina. In una prospettiva neo idealistica (Croce e Gentile), infatti, la conoscenza è la base dell’insegnamento. Quando ho sostenuto i concorsi, alcuni dei quali mi sono andati bene e altri male (you win some, you lose some), uno dei professori che faceva parte della commissione d’esame, a fronte di un candidato che sosteneva di avere chiara in mente la risposta, ma di non trovare le parole per esprimerla, controbatteva che una tale idiosincrasia era impossibile. Se si hanno conoscenze chiare, anche le parole seguono spontaneamente. In sostanza, l’insegnamento non era altro che una conseguenza del possesso delle conoscenze, talché chi sa non può non essere capace di esprimere ciò che sa. In base a tale punto di vista, la didattica (cioè quella parte della pedagogia che ha per oggetto i metodi d’insegnamento) avrebbe poca rilevanza, a fronte della conoscenza in quanto tale.

Questa posizione ha trovato, fino all’attualità, molti insigni sostenitori, che l’hanno declinata in vario modo. Paola Mastrocola, ad esempio, in uno dei suoi più bei libri in cui spiega cos’è la scuola a un cane, scrive “Penso che l’insegnamento dovrebbe essere una faccenda molto inconsapevole: bisognerebbe non accorgersi di stare insegnando. Se invece studio come fare a insegnare, acquisto una consapevolezza troppo consapevole, che danneggerà ogni mia naturale inclinazione”.

A questa posizione, potrei contrapporre quella di Gaetano Salvemini, nonostante egli viva un secolo prima della Mastrocola. Salvemini, intorno alla metà del secolo scorso, scriveva: “La capacità didattica – si dice – non si acquista per lezione altrui: magister nascitur, la esperienza poi affina le attitudini naturali (…). E certo Socrate non ebbe bisogno di alcuna laurea e di nessun assistentato per essere quel maestro che fu. Ma dove andrà a pescare il Ministro della P. I. diecimila o più Socrati, quanti ne occorrerebbero alle nostre scuole?”. La conclusione di Salvemini è chiara: “Un grande impulso, per altro, possiamo e dobbiamo dare alla preparazione didattica degli insegnanti e alla riforma dei metodi, adottando il sistema del tirocinio pratico (…)” .

Penso che Salvemini abbia ragione e che le sue considerazioni siano più attuali di quelle della Mastrocola. Vedo, infatti, alcuni bravi insegnanti, i quali, pur conoscendo la disciplina, non hanno né empatia, né doti d’insegnamento. (Ovviamente, non parlo di quelli che neppure conoscono la disciplina e che sono indifendibili sotto ogni luce). Di tanto in tanto, inoltre, si incontra anche qualche “belva” (uso la definizione del mio amico), che non ha una personalità empatica o semplicemente ritiene che la durezza dei modi e una rude severità siano le modalità più adatte all’insegnamento.

Certamente, occorrerebbero dei test psicologici, una sorta di green pass, che attestino l’empatia e la vaccinazione psicologica al virus delle provocazioni adolescenziali, le quali possono incattivire anche la più mite delle persone.

Noi tutti abbiamo presente l’esempio di quell’eccellente psicologo, dottore di ricerca e plurilaureato, ma poco dotato di empatia, il quale fa fuggire i pazienti. Ebbene quello psicologo è inadatto alla psicoterapia, pur essendo una “mente brillante”. Analogamente, non è sufficiente conoscere bene la materia per insegnare. La conoscenza, pur indispensabile (come ho già detto, non spendo una parola su chi non ce l’ha), è solamente una delle condizioni fondamentali. Poi, occorre l’empatia, il distacco professionale, perfino la capacità di assurgere a modello di vita per gli alunni e tanto altro ancora. Ma tutto questo i docenti possono impararlo mediante la formazione. Il mestiere d’insegnante non è puramente vocazionale e, anche se lo fosse, richiederebbe poi un’apposita preparazione.

Un’ultima questione. La cosiddetta “Buona scuola” (L. 107/2015), prevedeva, al comma 124, che la formazione in servizio dei docenti di ruolo fosse “obbligatoria, permanente e strutturale”. Questi tre aggettivi parrebbero ben calibrati, ma – si sa – la “Buona scuola” è stata un obbrobrio… I sindacati, quindi, sono riusciti a renderla inefficace, nei fatti, senza abrogarla formalmente. Come ci sono riusciti? Semplicemente facendo in modo di attribuire ai collegi dei docenti il potere di definire la misura dell’obbligo formativo. Com’è intuibile, un tale obbligo ha assunto una veste minimale. Il patto sotteso, nei collegi, era il seguente: se qualcuno vuole dedicarsi alla formazione, lo faccia pure, ma non rompa le scatole a chi non ne ha voglia o ha da fare altro.

(Ovviamente non parlo dei sindacalisti aretini, che sono brave persone, ma delle strutture sindacali nazionali, che vogliono raccattare la tessera anche di chi dovrebbe dedicarsi all’equitazione, anziché insegnare).

Sempre per rispondere al mio amico, sì, certamente c’è chi si si occupa di formazione per puro scopo di lucro, ma la formazione andrebbe fatta lo stesso.

Anche per questa mancanza, la maggior parte dei docenti non era pronta alla Dad dei mesi scorsi: senza obbligo formativo, che senso aveva prepararsi a lavorare con le tecnologie informatiche?

1 COMMENT

  1. Interessanti i riferimenti storici. Ma io, più che chiedere se è necessaria o meno la formazione, mi sembra che avevo chiesto se è fatta bene o se, come avviene in altri settori, finisce per avere al centro più le esigenze del sistema dei formatori che quelle dei formati.
    Faccio solo un esempio: vari commercianti che conosco mi parlano di corsi obbligatori a loro modo di vedere inutili o tenuti in modo ridicolo. In altre parole sembrano più impostati per far arrivare soldi alle loro associazioni rappresentative che li organizzano e creano il loro sistema di formazione che per un utilità effettiva. Loro li considerano come una gabella mascherata.
    Il quesito è lo stesso che a volte ci poniamo quando abbiamo problemi con la pubblica amministrazione: sembra più impostata per le esigenze di chi ci lavora che per rendere un servizio ai cittadini.

LEAVE A REPLY

Please enter your comment!
Please enter your name here