di Alessandro Artini
Così anche stanotte, che è la notte prima degli esami, gli studenti dell’ultimo anno si predispongono ad affrontare il grande rito finale, prima del cambiamento. Non so in che misura essi siano trepidanti, perché l’inquietudine dell’anima è sempre densa di speranze ed è proiettata sul futuro. Ma oggi, come scrivevano Benasayag e Schmit qualche decennio fa, l’assenza del futuro infonde soprattutto passioni tristi. In molti casi, la notte prima dell’esame è intrisa di ansia e di senso d’inadeguatezza, che si fondono in un sentimento disagevole e depressivo; un sentimento che poi si riversa nei social, talvolta con una euforia posticcia da “fine del mondo”, come quella del gruppo Borderline (nome che già di per sé rappresentava un programma), montato a cavallo di un Suv Lamborghini. Loro che, poi, la fine del mondo l’hanno effettivamente trovata. Per altri.
Il rito dell’esame è un momento che dovrebbe essere sacro e richiamare, proprio per il carattere arduo della prova, non solo le risposte ai quesiti, quelle per il compito d’esame, ma soprattutto le altre domande, quelle implicite che hanno a che fare con la propria esistenza. L’esame, infatti, è il momento adatto per chiedersi dove si va, una volta superato l’esame. Più precisamente, come suggerisce Martin Buber nei suoi insegnamenti hasidici, la domanda che dovrebbe risuonare è: “Dove sei?”. Solo affrontandola, può nascere la coscienza del cammino che si intende compiere, a partire dall’esame.
Ma chi dovrebbe favorire l’emergenza di quella consapevolezza, se non la scuola? Eppure stamani, in una conferenza di servizio in Toscana, ho appreso tutti i rischi formali che le commissioni d’esame devono affrontare per evitare ricorsi in tribunale, ma non ho percepito l’anima dell’esame. Forse neppure si sente più l’anima della scuola e per “anima” intendo, in senso etimologico, l’“ánemos”, cioè il vento che le soffia dentro. Non lo si percepisce in una scuola resa catatonica dagli interessi conflittuali e divergenti, che pur ne compongono un equilibrio statico. Una situazione dove chi ha il potere beneficia coloro che rientrano nelle sue grazie, con la donazione di incarichi, secondo una dinamica che con un linguaggio ingentilito potremmo definire come “spoils system” e, più crudamente, come clientelismo.
Una scuola insoddisfatta di sé, dai magri risultati in ambito internazionale, nella quale però i docenti, pur deprecando la loro sorte, dichiarano contestualmente che rifarebbero le stesse scelte professionali. Stando alle ricerche. Una scuola che, sempre in un aneddoto di Buber, assomiglia a quello sciocco, talmente sciocco da dimenticarsi dove posava gli abiti che si toglieva prima di dormire. Costui, disperato, decide di scrivere un biglietto, segnando dove li avrebbe riposti. Così fa e il mattino dopo, senza indugio, li ritrova. Ma allora, del tutto rivestito, si chiede: “Sì, ma io dove sono rimasto?”. “Invano si cercò e ricercò; non riusciva a trovare sé stesso”. Così racconta Buber.