di Alessandro Artini
“La svolta”, su Netflix, è un film di un giovane regista italiano, Riccardo Antonaroli, che racconta l’incontro tra un giovane studente fuori corso, poco motivato allo studio, la cui unica passione pare essere quella di disegnare fumetti, e un delinquente, anch’egli giovane, un ladro armato di pistola, che, dopo aver rapinato un boss, braccato, penetra nell’abitazione di quest’ultimo per nascondersi.
I personaggi sono stereotipati e paiono trarre spunto dai successi delle serie televisive che ruotano sulla malavita romana. Ci sono, anzi tutto i due protagonisti: Ludovico, lo studente perdigiorno alla ricerca di sé stesso e che si autocommisera considerandosi ammalato di depressione e Jack il ladro, che poi finisce per abbandonare la sua dura scorza e diventare un esempio di “buon cuore”. Poi c’è il boss Caino, un assassino crudele, che attua vendette efferate anche contro i membri del suo stesso clan, Spartaco, un delinquente che ambisce a ritagliarsi un ruolo autonomo e odia Caino, infine Rebecca, una studentessa carina, vicina di casa che deve laurearsi, cui Ludovico non trova il coraggio di rivolgere la parola.
Con una sintesi forse eccessiva, la “svolta” cui rimanda il titolo è quella di Ludovico che, guidato dal suo sequestratore Jack, impara a confrontarsi con la vita, squarciando il velo di alibi che egli aveva costruito per giustificare a sé stesso la propria infelice indolenza. Contestualmente Jack sembra avvertire, per la prima volta, la gratitudine che un estraneo, il sequestrato, gli rivolge e che lo fa sentire utile e importante, offrendo un senso diverso alla sua vita.
Il loro rapporto sembra improvvisamente mutare e dalla originaria costellazione di ruoli di rapitore e rapito, sorta dalla violenta irruzione di Jack nella vita di Ludovico, pare avviarsi verso la complicità di due amici, che finiscono a cena a casa di Rebecca e della convivente di quest’ultima, una studentessa spagnola che trascorre l’Erasmus a Roma.
Alcune parti del film appaiono poco probabili, come quelle che descrivono il mondo romano malavitoso e soprattutto quella finale, in cui si sussegue una serie di colpi di scena, che risulta eccessiva. Un finale di cui c’è necessità, per collegare in un corpo unitario i fili interrotti delle storie che si intrecciano nella narrazione filmica, che tuttavia appare un po’ barocca.
Anche la storia dell’amicizia tra Ludovico e Jack pare un insieme scontato e stereotipato di rovesciamenti di ruolo: il primo impara a rubare e a farsi valere, il secondo a tirar fuori la parte amicale e sentimentale, che sboccia infrangendone la maschera da coatto. Tuttavia, negli stereotipi c’è sempre un fondo di verità e buona parte della nostra vita è dettata da essi, come suggerirebbe lo psicologo Erving Goffman. In fondo, la giustapposizione tra realtà e narrazione si risolve nel rimando costante tra gli stereotipi della vita e quelli della fiction.
È noto come uno dei film più amati dai mafiosi fosse proprio “Il padrino”, che celebra, nella vicenda criminale, la cupa crudeltà delle cosche. Viviamo di stereotipi, i quali, pertanto, non inficiano il valore del film.
Nella iniziale contrapposizione tra i due personaggi, c’è anche uno scenario di verità che incombe sulla realtà, più generale, dei giovani. Da una parte, Ludovico, un indolente incapace di entrare nei ruoli adulti, anche perché immerso in una coltre di comode agevolazioni familiari (il padre gli passa una sorta di paghetta mensile), imprigionato in un mondo confortevole, ma destinato a produrre infelicità. Un giovane rampognato dal padre con parole inutili e vuote, atte a esacerbare solamente il suo senso di inadeguatezza, nonostante la scelta di vivere da solo. Dall’altra parte, c’è il ladro Jack, che nella sua vita dolorosa e accidentata ha elaborato un solo punto di riferimento, quello del fratello, che, per quanto ne sa, è fuggito in Brasile (il quale, invece, è morto assassinato) e che lui vuole raggiungere con i soldi della rapina ai danni del boss Caino. Jack, però, ha un saldo senso della realtà e, per quanto la sua vita si dipani nella strada della violenza e della delinquenza, egli sa come muoversi nella nebbia del male. Il film offre il paradosso di una vita per bene, quella di Ludovico, ma insensata, a lato di una vita da delinquenti, quella di Jack, ma radicata sul senso di realtà. In questa prospettiva, il film ci interroga sulla possibilità di individuare un orizzonte di esperienze reali e dotate di senso, senza che queste esorbitino dalle regole di convivenza sociale.
Esso può essere letto in un’ottica educativa. Le scuole oggi, orientate verso la “facilizzazione” della vita scolastica, con i genitori sempre disposti, in maniera avvocatizia, a difendere i figli, creano i vari “Ludovico”, incapaci di affrontare la vita. Ma sono sempre le scuole, questa volta nell’incuria dei genitori, a espellere i vari “Jack”, che poi imparano la realtà della strada. Anche da questo punto di vista, il film ha un suo valore.