LA GRANDE BELLEZZA, PER CHI LA AMA

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La grande bellezza, il film grazie al quale il regista Paolo Sorrentino ha potuto mettere mano sull’ambitissima statuetta d’oro oltre a moltissimi altri premi, calcando con Toni Servillo, alias Jep Gambardella, i più ambiti palcoscenici di Hollywood.

Prima di allora, l’ultimo film italiano ad aver vinto l’Oscar fu La vita è bella, nel 1999 di e con Roberto Benigni.

Trionfo della “bellezza”, si direbbe.

Il sacro unito al profano, come lo è Roma d’altronde con il Vaticano, il mondo cattolico e tutta l’arte che ospita, in contrapposizione al mondo profano, notturno, che si dirama dietro e tesse le sue tele.

Questo il pensiero di Sorrentino per spiegare anche ai giornalisti le motivazioni che l’hanno spinto alla scelta della colonna sonora. Spicca un’evidente alternanza tra musica classica e disco-dance. Il mix è stato voluto fortemente dal regista per evidenziare la metafora che riconduce tale apparente dissonanza a Roma ed alle sue “eterne” contraddizioni.

Un film potente e fragile al tempo stesso, fisico, d’impatto.                                            E di nuovo discordia, attrito, conflitto, urto anche nel ritmo che accompagna l’intera pellicola.

Vitalità, frenesia e prosperità da un lato, accidia, indolenza e staticità dall’altro. La carnalità degli esseri umani con i loro vizi e le loro debolezze e le statue di marmo o pietra che dominano perfette e imponenti Roma.

Ostentata indifferenza e disprezzo dei personaggi del film nei confronti dei valori morali e sociali.

Vige il disincanto, condizione di chi ormai è privo di illusioni e allora proprio per questo emergono il coraggio e la sfrontatezza di mettere in scena sentimenti non nobili, squallore.

La grande bellezza non vuole essere un film rassicurante e rasserenatore ma è un lungo viaggio in cui si scopre costantemente quanto l’essere umano sia miserabile. Ed appare ancor più misero se paragonato alla perfezione artistica e alla maestosità di Roma che irrompe alternandosi alla mediocrità umana.

Anche Fellini in fondo, in anni diversi, tramite storie differenti, voleva raccontare questo ne La dolce vita e chissà se le intenzioni dei due registi sono state capite.

Vien da pensare ai famosi “corsi e ricorsi storici” di Giambattista Vico e chissà quale sarà il prossimo film che si farà portavoce non solo di temi ma anche di modalità così scomode e ingombranti, che non son state comprese fino in fondo da tanti italiani, forse da troppi.

C’è chi ha detto, chi dice e chi dirà che entrambi i film mancano di un filo conduttore, di una vera e propria struttura narrativa, di un filo logico… Ma La grande bellezza è un grido prepotente, spiazzante e al tempo stesso dolce come il miele, con l’arte e la maestosità che anestetizzano le pene e ci racconta ciò che vuole raccontarci, non ciò che vorremmo sentirci dire. Non è un film “comodo” e non ha la pretesa di volerlo essere.

Non è tutto oro ciò che luccica. Dietro vite delle quali apparentemente non ci sarebbe da lamentarsi, vengono messe in evidenza le emozioni di esseri umani persi, viziosi, alla deriva, pieni di rimpianti, di bassezza al punto tale da far, a tratti, scaturire addirittura della tenerezza.

Di “bello” allora non ci resta altro che l’arte e la bellezza del titolo del film si riferisce proprio a quella, in totale contrapposizione con il nichilismo dei personaggi, tutt’altro che belli o che forse un tempo lo sono stati nel senso classico del termine, ma ormai non lo sono più.

 

Isabella Baldoncini

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