di Roberto Verdelli
Prendo spunto da un articolo del nuovo Piano Operativo (ex Piano Regolatore) del Comune di Arezzo che recita testualmente: “le attività agricole e zootecniche potranno avvalersi dell’ausilio di mezzi meccanici per la lavorazione del terreno solo in aree a debole pendenza (classe di pendenza compresa tra 0 e 10%) onde prevenire l’attivazione di processi di erosione accelerata dei suoli e delle coltri detritiche; tali azioni meccaniche dovranno comunque svolgersi esclusivamente secondo la direzione parallela alle curve di livello”.
Sostituire, nell’anno di grazia 2020: l’ascia con la motosega, la vanga con la motozappa, oppure reintrodurre il trattore con l’aratro trainato dai buoi, con ogni probabilità non incontrerà il consenso e la soddisfazione delle aziende agricole e neanche quella dei pochi coltivatori diretti rimasti che, con immensa fatica e poco profitto, continuano a mantenere le nostre campagne. Si tratta di una norma che incide su poche aree del nostro territorio e quindi, in se, di modesta rilevanza. Andrà, insomma, a turbare i sonni di pochi agricoltori se mai si accorgeranno della sua esistenza. Non sono nemmeno a conoscenza se tale norma è stata o meno modificata in sede di accoglimento delle osservazioni o degli emendamenti. Non è questo il problema!
Non è neanche mia intenzione sollevare questioni sulla “giustezza” della norma e sulla opportunità di coltivare a “girapoggio” o a “rittochino”. Un esperto contadino sa bene come conviene coltivare il proprio terreno. Non intendo, altresì, sollevare il problema della efficacia della norma, delle modalità di verifica o, ancora peggio, della eventuale applicazione delle sanzioni. Mi riesce difficile immaginare un vigile urbano o un carabiniere inseguire un agricoltore alla guida del suo motocoltivatore. Ultimamente abbiamo visto elicotteri a caccia podisti e quindi possiamo aspettarci di tutto.
Vorrei soffermarmi, invece, sul “principio” che sta alla base di queste iniziative. La disposizione contenuta nello strumento urbanistico del Comune di Arezzo, ancorché singolare per il rimando agli attrezzi da utilizzare, non ha particolari caratteri di originalità. Non è la prima e non sarà l’ultima volta che, attraverso strumenti urbanistici si cerca di regolamentare la trasformazione del paesaggio agrario. Molti strumenti urbanistici: regionali, provinciali e comunali prevedono norme specifiche sulla tutela delle maglie agrarie, sul disegno dei campi, sui tipi di coltivazione, sulle essenze arboree ammesse e, come appena visto, anche sugli attrezzi con i quali poter coltivare i terreni.
Volendo allargare il campo siamo ormai abituati, e ci sorprenderebbe il contrario, a norme che impongono: limiti, adempimenti, modalità di esecuzione e tecniche costruttive da rispettare in caso di interventi su edifici di interesse architettonico o paesaggistico.
Il principio della tutela del patrimonio “ereditato” è ormai consolidato nella cultura corrente. Esso si è evoluto in maniera rapida ed è ormai accettato dalla maggioranza della popolazione e dagli operatori del settore edilizio.
La filosofia che sta alla base di questo atteggiamento culturale è quella che il paesaggio e l’architettura che ci è stata tramandata è meritevole di conservazione e che essa vada, in ogni modo, tutelata e preservata. Il toscano in particolare, per gran parte a ragione ed un po’ per campanile, ha la consapevolezza che il proprio territorio e le proprie architetture siano particolarmente meritevoli di mantenimento.
Ritornando al territorio extraurbano il proliferare delle disposizioni riguarda in prevalenza, non le parti di maggiore naturalità ma gli elementi antropici: i percorsi, i fossi, i terrazzamenti, i muri a secco, i filari di viti maritate, i ciglioni, i dreni, i coltivi strappati al bosco e così via. Per me, uomo di poca fede e poco incline ad accettare il prevalere delle ragioni della natura su quelle dell’uomo, il fatto è estremamente consolatorio ma pone un problema di fondo che consiste nel presupposto di legittimità di tale atteggiamento.
Il paesaggio toscano, così come l’abbiamo ereditato, e che tanto amiamo e vogliamo conservare è, in grandissima parte, quello che deriva dalla tradizione agraria del sistema degli appoderamenti padronali poi trasformati in mezzadria ed infine coltivati direttamente. Piccoli poderi di modeste dimensioni coltivati in modo da garantire la sussistenza della famiglia. All’interno del podere si concentravano tante attività: la semina con rigorosi principi di rotazione delle coltivazioni, l’allevamento degli animali da cortile, qualche capo bovino nelle stalle sottostanti l’abitazione. Nei filari si sistemava qualche vite alternata a gelsi le cui foglie servivano per i bachi da seta. Piccole economie autarchiche fatte di sottili equilibri che consentivano di tirare avanti, con fatica e sacrificio, famiglie spesso numerose. Molto e meglio di quanto sia capace di riassumere in poche righe è stato scritto di questo mondo contadino lasciato nella miseria e nella ignoranza per secoli.
Un mio carissimo amico ha scritto che in realtà, questo nostro “paesaggio” non è mai stato progettato. “Chi faceva bene il suo lavoro, non lo ha mai fatto per pure ragioni estetiche, lo faceva e basta, possedendo, per farlo, idee chiare e strumenti appropriati adatti a soddisfare materialmente i suoi bisogni. Infischiandosene del risultato formale che è diventato importante solo successivamente e solo per la classe privilegiata degli intellettuali (infatti il viaggio in Italia lo facevano gli intellettuali) che continuano a pontificare sul come si deve fare senza aver mai fatto niente, e ancor peggio, senza essersi mai occupati della cultura di base che, senza particolari intenzioni, ha prodotto quella qualità che tentiamo di salvare. Serve una persona di buona volontà che spieghi agli estensori dei piani, ma soprattutto ai politici che ne esprimono l’impostazione culturale e sociale, che il contadino con la gabbanella, il cappello di paglia e il bove non c’è più, è morto e insieme a lui è morta una cultura agricola del passato che non potrà ritornare. I poderi che sottendevano tale cultura sono diventati le dimore della media e alta borghesia italiana, ma soprattutto di quella straniera che vende “estero su estero” i migliori pezzi presenti sul territorio toscano (casali, castelli, chiese e quant’altro) e abbandona al “gerbido” i terreni rurali produttivi ad essi collegati. L’agricoltura è fatta per la maggioranza di proprietari di terreni che vivono in città e che, svogliatamente, chiedono a terzisti, che vivono anch’essi in città, di seminare, con trattori enormi, i lori campi con del grano, grano che al raccolto costerà 30 € al quintale e che dovranno bastare per tenere in piedi una economia agricola asfittica e senza futuro. Come si può pensare alla tutela della coltura dell’olivo e quindi dei terrazzamenti se poi l’olio toscano extravergine costa dai “contadini” 8-10 € al Kg o peggio ai supermercati 2 – 3 € al Kg e in aggiunta al momento della raccolta delle olive girano elicotteri pubblici col fine di controllare se un amico, in cambio di un bottiglione d’olio, sta aiutando un altro amico a raccogliere le olive che altrimenti resterebbero sull’albero, per poi multarli entrambi?
Oppure penalizzare la coltura della vite, unico rimasuglio della produzione agricola capace di produrre un po’ di reddito, presupponendo che la stessa sia la colpevole del degrado ambientale che ci circonda solo perché non è più coltivata a “ritto chino” o a “giro poggio” oppure perché sta minacciando la maglia agraria minuta.” (arch. Enrico Lavagnino)
Si è ormai introdotto il principio che il possedere un terreno agricolo comporti l’obbligo di mantenerlo così come lo abbiamo trovato: con i filari, i terrazzamenti (siano essi definiti da muri in pietra o da ciglioni), gli scoli, le viti maritate, la maglia fitta dei campi, la loro orditura e così via. Si indicano i tipi di coltivazione ammessi, le essenze che possiamo impiantare, quelle che dobbiamo mantenere, se, quanto e come dobbiamo concimare o possiamo disinfestare.
Di fatto si tratta della reiterata apposizione di vincoli sulla proprietà dei terreni agricoli. Un po’ come su un edificio od un monumento di importanza storica per il quale esistono vincoli altrettanto severi imposti per la loro conservazione e mantenimento.
La ragione dell’imposizione di questi vincoli è abbastanza chiara e semplice da capire. Abbiamo la fortuna di avere e possedere “la bellezza” e ci corre l’obbligo di mantenerla.
Ma a beneficio di chi i possessori di questi beni debbono mantenere “intonsa” questa bellezza?
In buona sostanza per il diletto di tutti noi: il cuore si riempie di gioia ogni volta che passiamo davanti ad una chiesa, ad un palazzo o ad un monumento. La stessa gioia la proviamo ogni volta che transitiamo in mezzo alla Val di Chiana, agli oliveti di Cortona e di Pergine, o davanti alla “Vigna delle Sanzioni” sulla Setteponti, sulle colline del Chianti, in val d’Orcia e così via.
Ed è a questo punto del mio ragionamento che mi sono accorto che esiste un problema.
La bellezza è ed è stata messa a disposizione di tutti: di Goethe, dei Richardson, e degli altri aristocratici europei del XVIII e XIX secolo, ed è anche a disposizione dei contemporanei turisti tedeschi, americani, cinesi e giapponesi. E’ anche a disposizione dei milanesi, dei fiorentini, dei romani e dei napoletani ed in prevalenza di tutti quelli che, come me, vivono nelle città e nei grandi agglomerati urbani.
Gratuitamente e senza pagare alcun biglietto.
Del mantenimento di tale bellezza molti traggono benefici e solo pochi sostengono i costi.
Hanno benefici, come detto, tutti quelli che ne godono la vista. Li hanno, anche economici, alcuni settori produttivi ed in particolare quello turistico. Hanno qualche beneficio anche i proprietari di edifici siti in particolari ambiti ad alta rendita immobiliare ma non quelli che li posseggono nelle aree dell’abbandono e dell’incuria (la nostra montagna o le aree di pianura che non interessano i compratori esteri).
Hanno costi i possessori delle aree che non riescono quasi mai a far quadrare i conti e, per questo, sono spesso costretti a vendere o svendere o ad abbandonare il coltivo alla natura.
A questo ragionamento si può opporre che anche io e tutti gli altri toscani possono godere della bellezza delle campagne della campagna umbra, delle langhe, di tutte gli altri splendidi territori italiani o esteri. E’ una partita “di giro” tu godi della vista del paesaggio degli altri e gli altri godono della vista del tuo paesaggio. Allo stesso modo si ridistribuiscono i vantaggi che da tale mercato ne ricavano gli operatori. Tutto andrebbe bene se il rapporto tra chi gode dei benefici e chi sostiene i costi avesse un punto di equilibrio.
Al momento non mi sembra che sia così!
Il bosco sta fagocitando i coltivi, gli oliveti vengono abbandonati, non si mantengono i fossi e le scoline, non si trova gente capace di rifare un muro di pietrame a secco. Il paesaggio si sta naturalmente modificando secondo le nuove regole economiche dell’agricoltura.
Non si può pensare di risolvere il problema semplicemente imponendo dei vincoli alla piccola proprietà che non è più nemmeno contadina.
La bellezza del nostro paesaggio ha un costo. Penso anche che sia giusto sostenerlo.
Bisognerebbe solo trovare chi paga il conto!
Roberto Verdelli
Anche se con un linguaggio diverso, sembra di sentir parlare BC….