Esorcizzare la morte

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di Alessandro Artini

La poetica del collettivo di scultori “gel”, composto da Giovanni Raspini, Erika Corsi e Lucio Minigrilli, è ricca di simboli. Si tratta anzi tutto di animali, tartarughe, topi, iguane, ragni, ecc., che fanno parte di opere come quelle che sono state recentemente esposte nella mostra di Lucignano, presso Palazzo San Cristoforo. Animali che sono posti in una dinamica di ascesa, come se salissero e la verticalizzazione rappresentasse l’impronta ideale del collettivo stesso. Si tratta di una scelta stilistica, che offre all’estetica una sorta di propulsione verso l’alto, con un movimento archetipico che va dalla terra al cielo.

Tra i simboli, tuttavia, vi sono anche oggetti comuni, quali scatole, contenitori, libri e altro ancora, oggetti riprodotti all’interno delle composite sculture in metallo, perlopiù in bronzo. Ma ciò che più colpisce, in tempi come quello attuale di ricordo dei morti, è la presenza ricorrente di teschi, alcuni dei quali sono arricchiti e “addomesticati” nel loro significato dirompente da ornamenti che li ingentiliscono e quasi li rendono familiari, come delle catene. Ma che valenza hanno tali simboli?

In senso etimologico i simboli sono le due metà di un oggetto spezzato, che deve essere ricomposto per coglierne il significato. Nel caso dei teschi, essi rimandano a una dimensione metafisica, che in senso kantiano comprende ciò che va oltre le nostre capacità cognitive. Questa dimensione include la religione ed è questa l’esperienza che stiamo compiendo in questi giorni di commemorazione dei defunti. Spesso si tratta di una religiosità che va oltre la ritualità e la simbologia cristiana che connota la nostra cultura, per affondare le radici nei culti primitivi, i quali sono oggetto di indagine di alcune discipline come l’antropologia e l’etnologia. La morte, simboleggiata dai teschi, rappresenta uno dei temi principali del pensiero religioso, perché la realtà concreta della nostra finitudine ci pone di fronte all’“impensabile”, come sosteneva Freud. I primi lutti della nostra vita colpiscono la psiche in maniera indelebile. Da alcuni punti di vista, il mistero della morte rappresenta il principale motore delle rappresentazioni religiose, in senso teologico e artistico. Non a caso la vicenda fondante del Cristianesimo è quella della morte e resurrezione di Gesù.

I grandi edifici funebri, celebrativi della potenza e della ricchezza umana, come le piramidi egizie e le tombe etrusche, in qualche modo si piegano di fronte a quell’incognita inerente all’esistenza umana. Ogni costruzione, fisica o mentale che sia, si arresta di fronte al mistero la cui terribile oscurità viene solamente lambita. Eppure ogni nostro pensiero che indaga sulla morte tenta di blandirla, avvicinarla per attenuare il rigore della sua assolutezza. Anche laddove l’arte a cavallo tra medioevo ed età moderna presenta la tregenda dei supplizi infernali delle anime dannate, c’è un tentativo di umanizzazione, che traspare anche dal compiacimento dei demoni per le sofferenze inflitte. Cosa c’è di più umano che somministrare la sofferenza agli altri? Si pensi, ad esempio, al demoniaco dai caratteri onirici e satirici di un pittore visionario come Hieronymus Bosch. Ma la morte resta inavvicinabile.

Essa rappresenta l’ennesimo tabù che la società dei consumi vorrebbe ingurgitare, esattamente come tutte le altre dimensioni del negativo umano quali, ad esempio, la malattia, la sofferenza e la vecchiaia. Ma la morte inevitabilmente continua a rappresentare uno scandalo per la ragione ed è irriducibile all’ordalia di elementi mitologici, culturali e dottrinari, che la globalizzazione fonde in un calderone sincretistico. Così a lato del mondo pagano, che pur mantiene inalterati i suoi riti in alcune regioni meridionali, come quello dei dolcetti offerti ai morti, e del più attuale Halloween, che ripropone in veste da ipermercato i brividi scherzosi della paura, si mantiene inalterata la fede di chi continua a frequentare la liturgia cristiana.

Il collettivo “gel” ironizza sulla morte, dacché l’ironia è uno dei medicamenti dell’anima per affrontarla. Come lo è il gioco, secondo quanto racconta il “Settimo sigillo” di Bergman. I tre artisti del collettivo, in una delle sculture principali, pongono un teschio, inghirlandato da una catena, sopra una tartaruga, che a sua volta sovrasta una pila di libri. Il teschio che con eleganza dispone di tutti i denti, sembra aprirsi a un sorriso, con la catena che circonda il cranio per fuoruscire da un cavo oculare. Libri e tartaruga sono simboli del tempo che nei primi si protrae tramandando il sapere e nella seconda si evidenzia con la longevità, che ha consentito all’animale, cifra per eccellenza di lentezza, di attraversare lungamente secoli e millenni. Ma sopra di essi c’è la morte, che con il teschio sovrasta sia i libri sia la tartaruga, quasi a ricordare che essa è il termine ultimo, che – come suggerisce Totò – livella ogni esistenza.

La morte, tuttavia, ha un deuteragonista: la bellezza nell’arte che aspira all’eternità. Forse essa è il solo parziale antidoto.

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