di Alessandro Artini
Uno tra i più importanti è quello del disvelamento della natura assistenziale dell’attività scolastica. Se gli insegnanti non si occupassero dei bambini, i genitori non potrebbero andare a lavorare. Ovviamente, se ciò accadesse, le conseguenze economiche (e non solo), sarebbero rilevanti. Questa, per inciso, è stata la ragione della priorità vaccinale alla categoria (altrimenti, se non vi fosse stato di mezzo questo ruolo assistenziale di massa, perché non concedere la priorità ai giornalisti o ai commercialisti?).
La questione dell’assistenza educativa era già nota, ma, dal punto di vista di alcuni docenti, soprattutto di scuola superiore, non del tutto evidente. Per questi ultimi, l’idea di svolgere un lavoro assistenziale era mal accetta, perfino considerata offensiva, rispetto all’attività di pura trasmissione dei saperi. Ma adesso la questione è chiara: l’istruzione si muove di pari passo con l’educazione e quest’ultima comprende anche attività, apparentemente più prosaiche, come quelle di accudimento degli alunni, particolarmente dei più piccoli. Ma siamo sicuri che una tale attività dequalifichi il ruolo docente? Per esempio, ciò non accade per gli insegnanti inglesi il cui ruolo assistenziale/educativo è del tutto evidente e riconosciuto, particolarmente nel periodo attuale di emergenza pandemica.
A causa (o grazie) alla pandemia e alla didattica a distanza, si è avuta anche un’altra novità. Essa è consistita nella pubblicità che le attività d’insegnamento hanno avuto. Intendo dire che, improvvisamente, le lezioni sono diventate pubbliche, in primo luogo per le mamme e i nonni, che negli angoli della cucina o delle camerette, non visualizzati dalle webcam, potevano assistere alle spiegazioni dei docenti, alle interrogazioni e ai compiti in classe.
Se è pur vero che la presenza di estranei, con tutta probabilità, ha incrementato anche l’attività di copiatura (che in inglese si definisce come cheating ed è oggetto di studio), rispetto alla quale gli alunni italiani, nel ranking mondiale rivestono posizioni di vertice (si veda M. Dei, Ragazzi, si copia), la pubblicità delle lezioni non è un fatto secondario. In breve volger di tempo, le lezioni sono «uscite» dalle quattro mura delle aule scolastiche e sono state esposte al giudizio dell’opinione pubblica, dapprima di quella interna alla scuola (ciascun professore, particolarmente nei licei, ha un peso specifico reputazionale), poi, più in generale, anche di quella del Paese. Le scuole hanno avvertito le famiglie che le lezioni erano riservate agli alunni, ma tentare di opporsi efficacemente allo sguardo degli estranei era come resistere a uno tsunami con un ombrello. Infine, la domanda fondamentale è questa: «La categoria degli insegnanti ha acquisito o perduto prestigio?».
È ancora troppo presto per rispondere, ma vi sono delle ricerche che offrono riscontri eterogenei. Per esempio, prima della pandemia, a partire cioè dal 2013, è stata attuata un’importante ricerca i cui risultati sono stati resi pubblici solo recentemente, quella della Fondazione Agnelli attuata insieme a Invalsi (l’Istituto Nazionale di Valutazione). Essa, che ha il titolo di «Osservazioni in classe», è stata condotta mediante l’osservazione diretta nelle classi del lavoro didattico quotidiano di un campione di oltre 1600 insegnanti di italiano e matematica nelle scuole primarie e medie di 207 istituti comprensivi in tutto il Paese.
Secondo Andrea Gavosto, Presidente della Fondazione Agnelli, l’indagine mostra che solo una percentuale fra il 25 e il 30% degli insegnanti riesce a offrire in modo assai efficace spiegazioni e proposte di attività strutturate, favorendo gli apprendimenti, l’elaborazione attiva e consapevole dei saperi e l’autonomia. Egli spiega, inoltre, che più del 23% degli insegnanti osservati possiede «ottime capacità di spiegare in modo strutturato, ossia di svolgere al meglio la tradizionale lezione trasmissiva dalla cattedra», che invece viene svolta «in modo inadeguato da circa il 17% dei docenti, con il restante 60% che si colloca a un livello medio». Quasi il 30% è, invece, «particolarmente efficace nell’integrare le spiegazioni con la proposta agli studenti di attività di apprendimento ben strutturate – individuali o di gruppo – con anche l’utilizzo articolato di materiali e strumenti didattici (device digitali, risorse laboratoriali)». Ma il 13% mostra su questo fronte «deficit preoccupanti».
I risultati più confortanti, infine, sembrano provenire dagli insegnanti di scuola primaria. Essi dipendono probabilmente da un diverso percorso di formazione che dà maggiore rilievo alle conoscenze e competenze didattiche, mentre ai professori delle scuole medie si richiede una buona conoscenza della disciplina, ma non altrettanto buona di didattica.
L’immagine della scuola, offerta dalla ricerca, non è certamente positiva e ho idea che l’uso massivo della didattica a distanza, cui la stragrande maggioranza dei docenti è giunta impreparata, non sia servita a migliorarla. Ma oggi, con la «pubblicità» delle lezioni, tutto questo appare chiaramente agli occhi dell’opinione pubblica più avvertita. Anche la valutazione del prestigio reputazionale dei docenti si è fatto più attenta. Il che, forse, non è male.
Un fatto è certo: l’opinione pubblica, sia quella interna e ristretta delle singole scuole (se si può definire tale…) sia quella nazionale, ha acquisito piena cognizione del fatto che gli insegnanti, tra di loro, sono profondamente diversi: alcuni ottimi professionisti e altri no. Che ragione c’è, dunque, per mantenere inalterata una posizione egualitaristica tra i docenti? Perché si dovrebbero negare le differenze vistose d’insegnamento e impedire la possibilità di diversificare le carriere con differenti compensi?
La pandemia ha prodotto cambiamenti radicali, occorre prenderne atto e riconoscerli, anche in senso normativo.
La prima preoccupazione di una scuola pubblica dovrebbe essere la garanzia di una posizione egualitaristica tra gli studenti, non fra i docenti.
Vogliamo diversificare le carriere retributive degli insegnanti della scuola pubblica? A rigor di logica si dovrebbero allora prevedere anche forme compensative per gli studenti cui toccano in sorte (e si spera sia solo questione di sorte) «non ottimi professionisti».
Cerchiamo piuttosto di risolvere il paradosso dell’istituzione formativa per eccellenza che non riesce a formare adeguatamente i propri professionisti, magari ricordando che la vera formazione è continua.
“Che ragione c’è, dunque, per mantenere inalterata una posizione egualitaristica tra i docenti? Per quale ragione si dovrebbero negare le differenze vistose d’insegnamento e impedire la possibilità di diversificare le carriere con differenti compensi?”
Una ragione è che non esistono parametri per differenziare a posteriori chi lavora bene da chi lavora male. Chi decide a chi dare incentivi, e su che basi? Se si vuole lavorare a priori, in che modo diversificare le carriere, e con quali conseguenze?
Il cuore del problema per me è che un insegnante che lavora male lo fa per tutta la vita e nessuno glielo dice mai, perché non viene valutato. I problemi non vengono risolti perché non emergono, non se ne parla proprio. Nessuno gli dice che insegna male, non fa nessun corso di aggiornamento, continua a fare errori basilari fino alla pensione senza che nessuno glielo faccia notare. All’università i docenti alla fine dell’anno ricevono un questionario anonimo con domande precise: “Il docente motiva verso la materia?”, “Il docente è chiaro a lezione?”, “I metodi di verifica sono descritti in modo esauriente?”, “Il docente è disponibile per chiarimenti?”. Gli studenti compilano e la cosa funziona. Perché non estenderlo in forma sperimentale alle superiori? Se non vogliamo fare un questionario, possiamo fare queste domande direttamente ai rappresentanti degli studenti: vengono fatte, queste domande, agli studenti?