Ciao, indimenticabile portierone

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di Giorgio Ciofini

Con Giuliano Sili si viaggiava ancora in calzoni corti, quando Aldo Nardin sbarcò in città da  Gorizia, chiamato da un friulano di Spilimbergo, che ha fatto la storia dell’Arezzo: Guerrino  Zampolin. Non ricordo se c’era anche Saturno, ma s’era nell’età dell’oro, sia pure con un po’ di  rame. Vuoi mettere? Poi venne l’età dell’argento. Poi quella del bronzo. Poi della latta e tocchiamo  ferro.

Di questi tempi è ardua anche la speranza e sia chiaro che, il Coronavirus, è solo un  accidente, per quanto insopportabile (con gli annessi). Si vive, ma sarebbe meglio dire si campa, di  nostalgia e di lontananze, per non piangere tre volte. La prima, sia ben chiaro, per Aldo Nardin, il  portierone che ci ha lasciato l’altro ieri.

Era l’estate del 67, un’estate caldissima per chi rincorreva un pallone dalla mattina alla sera  e qualche gonna che alzava il vento. Innamorati pazzi dell’Arezzo, s’era passati dalla spedizione di  Carpi, all’addio alla B in un anno solo. Una botta da stendere il Covid! Figurarsi gente come me e  Giuliano.

Non si sa perché, ma si sentiva che era un arrivederci a presto. C’era fiducia nel futuro, cosa  che manca come il pane, di questi tempi. Già quando scese alla stazione di Arezzo, Aldo deve aver  annusato nell’aria quel sentore. Un vago profumo, che sapeva di rivincita, di avventura e di casa.  Qualcosa di familiare e di stuzzicante insieme, gli deve essere transitato per il naso. Solo più tardi  scoprì che era un presagio.

Fatto sta che, dopo due anni, l’Arezzo era di nuovo in serie B. Anche la fine della vita, per  Nardin, non è giunta inattesa. Stava male da tempo e, stavolta, il presentimento alitava in noi,  vecchi ragazzi incatenati ai ricordi, con un amaro insopportabile. Aldo ha affrontato l’ultimo  avversario come fosse un centravanti. Con il coraggio, la tenacia, la forza e l’eleganza che aveva tra  i pali.

Ai tempi, Sarti e Albertosi facevano scuola nel calcio italiano che, in fatto di estremi  difensori, non aveva rivali al mondo. Sarti, il portierone dell’Inter di Helenio Herrera, era un tipo  alla Zoff. Uno di quelli dedito all’indispensabile. Tanto sapeva dove andava a finire la palla. Non  c’era bisogno di svolazzi, di girigogoli, di concessioni alla platea. Albertosi, rimasto alla Viola, non  era meno bravo, ma più incline allo spettacolo.

Proprio a lui s’ispirava Aldo Nardin, portiere moderno e completo, che sapeva unire  praticità e sceneggiatura in giusta dose e che va iscritto, con Giuliano Giuliani e Paolo Conti (per  stile emuli di Giuliano Sarti), nella triade dei portieri più forti della storia amaranto.  Basti dare un’occhiata al curriculum. Protagonista in serie A con le maglie di Varese, Napoli,  Ternana e Lazio. In B con quelle del Lecce e del Foggia. Finì la carriera a Civitavecchia (C2) nella  stagione 1982/83, con un rinvio dalla sua nella porta dell’Imperia. Siccome all’epoca non c’era Mai  dire gol, quella prodezza la ricorda solo il Sili, che ce l’ha passata per antica amicizia. Francamente  il gol non era nel suo repertorio, ma gli valse a chiudere in bellezza una straordinaria la carriera.  Fu, in qualche modo, il suo canto del cigno.

Da anni ci incontravamo intorno all’edicola di Piero, la rotatoria delle chiacchiere pedestri  dei perditempo in tema di calciopalle, tra amici d’un tempo migliore. Era diventato uno di noi.  Quel ritrovo era la prova del nove d’un approdo che, per il suo carattere, deve essere stato  impervio. Aveva raggiunto una sintesi di convivenza, che non c’entra niente con l’attuale.  Un’aretinità friulana, che era diventata il suo modo di essere, un marchio di fabbrica. Elegante,  riservato, disponibile, gentile, Aldo aveva adattato i suoi geni nativi a quelli locali. Mai un tono di  voce troppo alto o un segno pronunciato di insofferenza, sempre dentro quelle righe, che l’aretino  salta come le file.

Anche quando si parlava di calcio (il che succedeva quasi sempre) preferiva ascoltare. Al  massimo, per dire la sua, abbozzava un sorrisetto di approvazione, o disapprovazione guardandoti  in faccia. Sapeva bene che, da queste parti, siamo tutti liberi docenti in materia e, tanto più  sbraitanti, quanto più ignoranti (in senso socratico). Ma i suoi pensieri li teneva per sé. A meno che  il livello degli sfondoni superasse quello di guardia, che era l’argine dei portici del Morini. Solo  allora interveniva, ma col solito garbo e solo per evitare l’inondazione di Corso Italia, per cui di  solito bastano quattro gocce.

L’ultima volta che avevo parlato con lui, mesi fa, avevo avuto il presentimento di quello che  è accaduto. Non potevo, non volevo crederci e, quando ho saputo, i miei anni migliori mi sono  crollati addosso tutti insieme. Non pensavo che pesassero tanto. La collezione di una vita con  l’Arezzo si assottiglia. Nespoli, Meroi, Beatrice, Fara, Tombolato, Pozza, Zanetti, Giuliani, Minghelli,  Querini, Scatizzi, Magherini, Tassinari, Talusi, Barberini, Nardin (e mi scuso per dimenticanze del  tutto involontarie) i pezzi di una lunga storia, che si è intrecciata alla mia come l’edera a Nilla Pizzi.  Troppe pagine dell’album sono rimaste vuote.

Con Aldo Nardin se n’è andata una parte di me, di noi. Per questo, oggi, ho richiamato  Giuliano Sili dopo tanto tempo. Per condividere il dolore e tanti ricordi indimenticabili. Insomma  sentivo il bisogno di lucidare memorie vecchie di cinquant’anni, eppure vive più che mai. Aldo  arrivò tra noi (con quel fisico poteva sbarcare a Cinecittà) quando gli anni sessanta, passati alla  storia come favolosi, volgevano al termine. Ma per chi aveva l’Arezzo nel cuore, il bello stava per  cominciare.

Impossibile, del resto, il contrario. Quell’estate, con Nardin, sbarcarono alla stazione  Vezzoso, Monticolo, Benedetto, Galuppi, Faloppa, Orlandi e Farina. Roba da Turchi, che ha fatto il  Museo ed è il custode della memoria. Pezzi da novanta, che hanno lasciato un segno anche nel  calcio italiano. Quello che conta. I neofiti possono consultare gli almanacchi. Chi li ha visti giocare  da ragazzo, invece, ha finito per innamorarsi perdutamente dell’Arezzo e del gioco del calcio.  Oggi quei vecchi ragazzi vivono di ricordi. Dopo le guerre stellari con la Massese (stagione  1968/69) fu di nuovo serie B. Quell’anno il portiere della seconda promozione, Pinella Rossi,  veterano di tante battaglie e monumento del calcio aretino, lasciò il passo alla recluta. E fu proprio  Nardin il numero uno di quella che, per me, resta la squadra più forte, in assoluto, della storia  amaranto, la quale non finì in serie A per due motivi. Primo perché partì ad handicap, riparata solo  a novembre con Camozzi, Incerti e Benvenuto (i nostri Gre-No-Li). Secondo perché la Società di  Simeone Golia, non volle fare il salto più lungo della gamba. Insomma non se la sentì.

Eccola quella mitica formazione, che recito a memoria come è d’obbligo per ciò che è  indimenticabile: Nardin, Vezzoso, Vergani, Camozzi, Tonani, Parolini, Galuppi, Pupo, Benvenuto,  Farina, Incerti. Indimenticabile come te Aldo Nardin, portierone e uomo non da meno.

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