Che valore ha la DAD per gli alunni? Solo il tempo ci darà la risposta

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di Alessandro Artini

Che valore ha la DAD, cioè la didattica a distanza, per gli alunni? Come sempre, troveremo la risposta con il tempo, prendendo atto dei cambiamenti, ma possiamo rifletterci fin da adesso.

Per ora, sappiamo che essa è stata utile e come abbia rappresentato l’unico strumento per mantenere il contatto con gli alunni, durante il primo lockdown dello scorso anno. La DAD, dunque, ha avuto un importante valore nell’emergenza (seppure sia stata inizialmente osteggiata, in maniera irragionevole, dai sindacati della scuola). Il dibattito, tuttavia, è tuttora in corso, in ragione del fatto che la scuola italiana è stata chiusa più a lungo rispetto ad altri paesi e le lezioni on line si sono protratte nel tempo.

I bambini e gli adolescenti, generalmente, non vivono bene la DAD e la mancanza della didattica in presenza è ragione d’insoddisfazione e malessere. Stefano Vicari, neuropsichiatra romano, osserva che i letti del suo reparto non sono mai stati così pieni di giovani come quest’anno; infatti, a causa di tale malessere, sono stati compiuti molti atti autolesionistici (inutile ricordare che il suicidio rappresenta, fra gli adolescenti, la seconda causa di morte dopo gli incidenti stradali).

Carlo Alberto Mariani, neurologo siciliano, si esprime anch’egli, sul Sussidiario.net, in maniera negativa. L’eccessivo uso della rete influisce sulla capacità di pensare, da parte dei ragazzi, perché si produce un’irreversibile perdita di neuroni, che nuoce alla capacità di fissare i ricordi. Si ha, così, una caduta dell’apprendimento per mancanza di attenzione e memoria.

La DAD, inoltre, altererebbe la possibilità di trasformare l’apprendimento in esperienza concreta, a causa della scarsità di relazioni. In altri termini, non si attivano i neuroni “a specchio”, quelli scoperti da Giacomo Rizzolatti e che stanno alla base dell’empatia e dell’esperienza stessa.

È noto, infine, come l’apprendimento si fondi sulla prossimalità, che, secondo Vygotskij, è una delle condizioni che ne favoriscono lo sviluppo. In sostanza, si apprenderebbe grazie al fatto che i bambini vengono sostenuti dagli adulti oppure dalla collaborazione con i loro coetanei. Difficile che ciò possa accadere quando gli altri (docenti e compagni di classe), grazie a Zoom, sono ridotti a delle “figurine Panini” sugli schermi dei computer.

In sostanza, la presenza degli altri costituisce il mondo vitale che abitiamo e la loro assenza (o presenza “in remoto”) deteriora le nostre capacità relazionali e intellettive.

La DAD, tuttavia, non è la sola via d’uso della rete nelle scuole. Una parte del lavoro si svolge in smart working (espressione inglese, non usata dagli Inglesi). Anche in questo caso, il lavoro subisce un deterioramento, perché, per gli amministrativi, il confronto con i colleghi è utile e stimola la creatività. Si potrebbe obiettare che proprio un tale lavoro sia del tutto alieno dallo spirito creativo, ma non è così! Anche in quell’attività, che potremmo definire burocratica per eccellenza, il lato innovativo è presente. Nessuna procedura o pratica sarà del tutto uguale alle altre e in una situazione come quella attuale, dove l’insoddisfazione e la scontentezza rappresentano una condizione costante di sfondo, l’esercizio dell’intelligenza può essere utile per scansare qualche guaio.

Il problema è che, se talvolta il lavoro da casa offre dei vantaggi individuali, talaltra non serve ad altro se non a riprodurre le condizioni di solitudine che stiamo vivendo.

Qualcuno osserverà che buona parte degli amministrativi delle scuole non sia preparata al lavoro “da remoto”. Senz’altro, anche questo può essere vero. Tuttavia, non è solamente una questione soggettiva, quanto, piuttosto, di organizzazione del lavoro. Lo smart working ci propone nuove forme di attuazione e di misurazione della produttività stessa. In fondo, quest’ultima (e ciò vale per tutta la pubblica amministrazione) raramente è stata presa in considerazione (nonostante Brunetta) e il solo metro di giudizio è stato quello dell’orologio marcatempo, su cui strisciare il badge (laddove ce ne sia uno e non in tutte le scuole c’è). La disciplina del lavoro cambia profondamente, se il termine di riferimento è il tempo che passa oppure la mole delle pratiche da sbrigare in autonomia. Forse, anche per questo, la maggior parte delle persone, dopo il lockdown dello scorso anno e la forzata clausura nelle abitazioni, preferisce lavorare a scuola anziché da casa.

In Inghilterra, dove la transizione al lavoro digitale è a uno stato avanzato di realizzazione, si riflette sulle conseguenze che l’uso continuo di Internet ha provocato nella nostra vita. A life lived remotely, cioè Una vita vissuta da remoto, è il titolo di un racconto/saggio, redatto dalla scrittrice Siabhan McKeown in tono riflessivo. I cambiamenti in atto sono fortissimi e si tratta di capire – costei osserva – in che misura essi coinvolgano la nostra quotidianità e persino le nostre relazioni, in un mondo ove non sono più distinguibili i momenti di lavoro da quelli della vita privata.

Una cosa mi pare certa: l’immersione in Internet ha provocato, per reazione, un profondo bisogno di socialità. Da lì dovremmo ripartire.

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