Buona fortuna, Presidente Zelensky

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di Alessandro Artini

Il Corriere della Sera di giovedì scorso 10 febbraio riporta una notizia che mi colpisce: alcuni giorni fa, dopo 107 anni dal suo affondamento, alcuni droni sottomarini hanno trovato il vascello di Sir Ernest Shackleton, l’Endurance, nel fondo del mare di Weddel, a 3008 metri di profondità.

C’è qualcosa che mi intriga, in quella notizia perché, oggi, è banale spostarsi sul nostro pianeta ma, ancora agli inizi del secolo scorso, esistevano luoghi inesplorati, raggiungibili solo affrontando elevati rischi personali. Ad esempio, ci sono stati molti navigatori ed esploratori che, per raggiungere il Polo Sud, sono andati incontro a ogni sorta di avventura, non di rado morendo per gli stenti nella landa ghiacciata. Ci riuscì Amundsen, il 14 dicembre 1911.

Shackleton, con il suo equipaggio di 27 uomini, salpa il 1° agosto 1914, qualche anno dopo Amundsen, con l’intento di battere una nuova via per il Polo Sud. A un solo giorno di navigazione dalla meta, la nave si incaglia “come una mandorla nel cioccolato”, nella baia di Vahsel, nei ghiacci polari del Mare di Weddel. A 2.000 chilometri dagli avamposti della civiltà, senza possibilità di aiuto, l’Endurance è trascinata dal pack sempre più a Nord, fino a che, infine, viene “stritolata dai ghiacci” come una nocciolina e affonda. Gli uomini, costretti ad accamparsi a riva, sopravvivono in condizioni estreme.

Le loro vicende sono documentate dal diario di bordo, oltre che da alcune fotografie, scattate da Franck Hurley, Official Expedition Photographer cioè fotografo ufficiale. Dopo 4 mesi di ottenebrante desolazione, nutrendosi di carne di pinguino e di foca, non appena il ghiaccio si scioglie, l’equipaggio, a bordo di alcune scialuppe, riesce a raggiungere l’inospitale isola Elephant, ricoperta dal guano degli uccelli e battuta da un vento tempestoso. Shackleton si rende conto che restare lì significa andare incontro a morte certa, quindi parte nuovamente, a bordo di una scialuppa, accompagnato da un gruppetto di marinai. Percorre così 1.300 chilometri, in 15 giorni, per trovare aiuto nella Georgia Australe. Un’impresa unica e irripetibile. Raggiunta la meta, egli riparte subito, per salvare il resto dei suoi marinai. E ci riesce: nessuno membro dell’equipaggio muore.

Una vicenda terribile, che avrebbe messo a dura prova la resistenza di chiunque, ma che, sotto la guida di Shackleton, diventa, in qualche misura sopportabile. Resistenza e fortezza sono le due doti, evocate dal nome della nave stessa, che consentono la sopravvivenza. Quindi, quella che appare come una sconfitta, perché egli non raggiunge il Polo Sud, si trasforma in una straordinaria e affascinante vicenda umana, una vittoria che, in qualche misura, lo immortala come un leader eccezionale, capace di guidare un gruppo di uomini alla salvezza.

La sua vita ha ispirato e ispira molti uomini, alcuni per ragioni marinaresche, altri per motivi filosofici o pedagogici (esistono scuole che si ispirano alle sue gesta), altri ancora semplicemente perché affascinati da una storia che forse neanche Joseph Conrad avrebbe potuto scrivere.

Qualche anno fa, al terzo piano di uno dei più famosi negozi londinesi di tè, Fortnum & Mason, poco distante da Piccadilly Circus, ho trovato un opuscolo, edito dalla Royal Geographical Society, che contiene alcune fotografie scattate da Hurley, i cui negativi furono miracolosamente salvati dopo il naufragio. In una si vede una partita di calcio dell’equipaggio, diviso in due squadre, su un campo di ghiaccio, con i remi al posto dei pali delle porte. In un’altra si vede la muta dei cani, che Shackleton si era portato dietro, in nave. Cani che guardano la nave mentre affonda e sembrano comprendere che sta accadendo l’irreparabile. Paiono assorti.

In questi giorni, capita più volte di vedere, alla televisione, quel filmato in cui Putin, mentre presiede una riunione con i suoi ministri, seduto a una scrivania imponente, contrapposta ai più modesti tavoli dei suoi ministri, maltratta e umilia il capo dei suoi servizi segreti. Quel filmato illustra, meglio di tante parole, la concezione del potere dell’autocrate russo.

Per contro, mi viene in mente una frase di Shackleton, che ho ritrovato nel retro di copertina di un libro di due scrittrici, Margot Morrell e Stephanie Capparell, che lessi molti anni fa. Vale la pena di trascriverla: “Per me la vita è un grande gioco di squadra che va condotto seguendo le regole dell’equità e della giustizia, e in cui l’obiettivo principale non è la vittoria in sé, ma vincere con onore e nella maniera più pulita. Per arrivarci ci vogliono alcune qualità. Una è la lealtà. Poi c’è la disciplina. E l’altruismo. Il coraggio, anche. Una certa dose di ottimismo non guasta. L’intelligenza certo. E, per finire, la compassione e il cameratismo”.

Ecco perché l’insegnamento di Shackleton è attuale.

Buona fortuna, Presidente Zelensky!

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