di Alessandro Artini
Ad Arezzo l’abbandono scolastico è elevatissimo e colpisce il 22% di giovani che lasciano la scuola con la sola licenza media.
Si tratta di un record nazionale, insospettabile in una provincia della civilissima toscana. Credo che l’opinione pubblica aretina non abbia piena consapevolezza di quali siano le conseguenze di una tale situazione, su un piano economico e sociale. Esse sono attutite dalla ricchezza che le famiglie hanno accumulato nel corso dei decenni, che consente ai giovani “dispersi” di condurre una vita accettabile, sul piano qualitativo, anche se quelle risorse si fanno via via più esigue e nel giro di un’altra generazione sono destinate a finire. Ciò riguarda quei giovani nati fortunatamente in famiglie benestanti o che comunque hanno redditi superiori alla soglia necessaria alla mera sussistenza, ma gli altri, quelli le cui famiglie già vivono condizioni di disagio, che fine fanno?
Riguardo a questi ultimi, mi pare che le istituzioni di assistenza, pubbliche e non, abbiano già manifestato segnali di allarme. Per esempio, nel rapporto annuale della Caritas, presentato al termine dello scorso anno e relativo al 2020, si riscontra un picco di aumento delle famiglie che hanno richiesto per la prima volta un aiuto (l’83% in più, rispetto all’anno precedente). Se anche non vi fosse una tale crescita della povertà, quegli adolescenti Neet, che cioè non studiano né lavorano, cosa combinano? Non conosco i dati precisi della provincia di Arezzo, ma so che i servizi d’igiene mentale, compresi i reparti psichiatrici ospedalieri, hanno registrato un significativo aumento di interventi a livello nazionale e gli operatori del nostro territorio confermano che l’esistenza di un tale trend si pone anche a livello locale. Del resto, che senso possono dare alla loro vita, priva delle attività che sono essenziali nella costruzione dell’identità personale, quei giovani che non studiano né lavorano? Forse anche la questione della sfrenata movida del fine settimana in Piazza della Badia (e non solo) può essere letta da questa angolazione.
In veste di dirigente scolastico, registro un cospicuo aumento di quelle forme di malessere che trovano espressione nelle crisi di panico, nei disturbi alimentari, nelle manifestazioni autolesionistiche e in altro ancora. Una parte di alunni che vivono queste condizioni di disagio finisce generalmente per lasciare la scuola. Quanto poi alle conseguenze degli abbandoni sul piano economico e sociale, esse ormai sono note. Generalmente si ha un aumento della disuguaglianza sociale (si veda l’indice di Gini) e scuola e università non fungono più da “ascensore sociale” per i giovani meritevoli. Oggi, in Italia, abbiamo un 20% circa di laureati (contro il 33% dei paesi dell’Unione europea). In altre parole, la mobilità sociale, atta premiare i giovani migliori per il loro talento e impegno, indipendentemente dalle origini sociali, viene progressivamente meno. Anzi, per essere più chiari, l’ascensore è rotto da alcuni anni. L’abbandono scolastico, infine, ha anche dei riflessi sui comportamenti marginali o di devianza. Un amico pedagogista, americano di origine italiana, mi spiegava che è possibile porre un nesso tra dispersione scolastica e aumento della popolazione carceraria.
Ma, se queste considerazioni hanno un valore generale, cosa accade di particolare nella realtà aretina che ne spieghi le gravi condizioni critiche? Ovviamente occorrerebbero specifiche indagini per approfondire il problema, ma, per quanto è di mia conoscenza, nessuno le ha condotte. Queste ultime potrebbero svilupparsi se vi fosse un’opinione pubblica cittadina consapevole della problematica dell’abbandono scolastico, ma così non è e l’aspetto più grave è che non vi è piena consapevolezza neppure nelle singole istituzioni scolastiche e nell’amministrazione. In sostanza, il mondo della scuola si interessa poco della questione. Lo sguardo di coloro che vi lavorano è piuttosto indirizzato verso gli alunni che appartengono alla fascia elevata dei risultati, i quali generalmente provengono da famiglie di collocazione sociale alta…
Continuando a dipanare il filo di questo discorso (ma lo faccio con il beneficio del dubbio), vorrei osservare che questa mancanza di interesse per la scarsa efficacia del servizio scolastico appartiene anche alla mentalità di noi aretini. Alcuni sociologi francesi, in passato, hanno usato la categoria della “personalità di base”, per identificare le caratteristiche comportamentali e psicologiche dei membri di una certa comunità. Ebbene, noi aretini siamo gente fattiva, costruttiva, laboriosa e dotata di spirito imprenditoriale, ma spesso siamo estranei, nei nostri atteggiamenti, a tutto ciò che appartiene al mondo della cultura, compresa quella scolastica. Ho sempre impresso nella memoria un cartello di offerta di lavoro da parte di un’azienda, che lessi venticinque anni fa circa. Esso, più o meno, suonava in questo modo, “Cercasi lavoratore da assumere, ma solo con il diploma di scuola media”. In altre parole si cercava un certo tipo di giovane, che offrisse i requisiti per la stipula di un determinato contratto (allora vigente) auspicata dall’azienda. Per il lavoro offerto, quel diploma era più che sufficiente…
Oggi la situazione è cambiata e molte aziende aretine si muovono su mercati internazionali che richiedono prodotti sempre più evoluti e tecnologicamente avanzati. In veste di dirigente di un istituto tecnico, ho modo di riscontrare questa attenzione (talvolta parzialmente inficiata dalle modeste dimensioni dell’azienda, che non consentono adeguati investimenti in ricerca) rivolta al capitale umano e cioè alla formazione del personale. La resilienza di molte aziende aretine, sopravvissute alle recenti crisi, è dovuta anche alle scelte di ristrutturazione tecnologica, ma ancora questo tipo di mentalità non è così diffuso.
Ho la sensazione che gli abbandoni derivino, in prima istanza, da un disinteresse che trova radice nella cultura di noi aretini e che ha unito, con una sorta di congiura del silenzio, il mondo della scuola e quello economico.