14 maggio 1799: le armate polacche cercano di domare l’insorgenza aretina

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Quando, una ventina di anni fa, iniziai a occuparmi del Viva Maria, cercai di conoscere la versione dei fatti del 1799, da parte polacca. Ebbi la grande fortuna di imbattermi nell’allora Direttore dell’Accademia Polacca di Roma – prof. Krzystof Zaboklicki – che mi procurò testi e documenti importantissimi, ma introvabili in Italia, come Pamietnik Wojskowy (Memorie Militari) del generale Dabrowski, la Histoire des Légions Polonaises en Italie sous le commandement du Général Dombrowski, di L. Chodzko, il monumentale lavoro di 1.500 pagine di Jan Pachonski, Legiony Polskie. Prawda i legenda, 1794-1807(Legioni Polacche. Verità e Mito), oltre ad altri lavori di B. Zaydler, B. Bilinski e suoi, tutti legati all’argomento da me indagato. Gentilmente, la signora Dorota Knapczyk-Mattesini mi tradusse le parti di mio interesse e così, potei confrontare documenti e memoriali italiani, con i loro corrispettivi polacchi. E alla fine, mi giunsero perfino i complimenti e i ringraziamenti dello stesso prof. Zaboklicki, perché a suo dire, il mio lavoro era: “… anche un prezioso contributo agli studi sulla presenza militare polacca in Italia, nell’epoca napoleonica”.

Ma, al di là di tutto, mi chiedo come si possa, nel Terzo Millennio, lavorare alla storia di una vicenda come il Viva Maria, basandosi solo su memorie, stampe e scritti (spesso apologetici), di due secoli fa, volutamente ignorando documenti d’archivio e decine di indagini sul tema, anche polacche. E purtroppo, c’è chi continua a “lavorare” in questo modo …

Torniamo al Dabrowski. Egli attendeva in Perugia l’arrivo dalle Marche del suo vice, colonnello Jozef Chamand, che riportava indispensabili nuove divise per i soldati, per poi partire verso Cortona e Arezzo. Con un’inimmaginabile rapidità, invidiabile persino ai giorni nostri, il 10 maggio un mercante di pesce portò a Castiglion Fiorentino la notizia che alcune migliaia di polacchi, francesi e giacobini erano pronti a partire da Perugia, per “dare il sacco” “in questi paesi”. Lo stesso giorno, Castiglioni informò Arezzo e l’11 maggio la Suprema Deputazione spedì a Cortona 15 cavalieri per avere notizie più precise e per concordare dei comuni piani di difesa.

Il 12 maggio, in base ad una richiesta di approntamento di viveri e fieno, arrivata a Cortona da Perugia e subito portata ad Arezzo, fu chiara la consistenza della Legione polacca: 4.000 fanti e 400 cavalieri. Oltre ai tanti giacobini della Repubblica Partenopea e di quella Romana, che la seguivano.

I timori e l’apprensione salirono al massimo, sia in Arezzo che negli altri due centri e nei tanti piccoli paesi che, entro pochissimi giorni, sarebbero stati attraversati dai polacchi. Cortona spedì dei suoi rappresentanti ad Arezzo, per chiedere “pronto soccorso”. La Suprema Deputazione inviò nella città vicina un contingente armato, al comando del Capitano Giovanni Natti, al quale si unirono parecchi armati di Castiglion Fiorentino, comandati da Vincenzo Paglicci.

Il 13 maggio,fin dal mattino presto vi furono duri scontri tra l’avanguardia polacca e i popolani cortonesi, nella zona di Terontola Alta, Pozzo di San Giuseppe e Cortoreggio. I combattimenti si spostarono poi verso il Campaccio, Metelliano, Pergo, San Marco in Villa, fino a raggiungere le mura di Cortona poco prima delle otto di sera.

Purtroppo, se Cortona era difesa dalle sue alte mura, non lo era altrettanto dai suoi contadini, che invece di entrare in città, se ne scapparono in campagna. Il memorialista Cecchetti dice che di 2.000 che erano a contrastare i polacchi nei paesi sotto la città, ne entrarono in Cortona solo 300. Probabilmente erano di più, ma non sufficienti per sostenere un deciso attacco. E per fortuna che c’erano gli aretini e i castiglionesi, a presidiare le porte S. Agostino e S. Domenico, le più vulnerabili.

Dabrowski, tentò di assalire la città, ma non disponendo di artiglierie, dopo alcune ore di sparatorie, verso le 23 ordinò il ripiegamento ai piedi del colle, dove i suoi soldati e i loro alleati, sbandati della Repubblica Romana, si abbandonarono a saccheggi, violazioni di conventi e monasteri, devastazioni, incendi, stupri, sequestro di giovani donne, uccisioni.

Fu una dura giornata, contrassegnata da violenti sparatorie, che per fortuna, considerando anche la poca precisione delle armi dell’epoca, causò meno vittime di quelle dichiarate nelle cronache e memorie contemporanee: non i 400 polacchi morti delle memorie cortonesi (Cod. 427 della Biblioteca Comunale) o i 150 polacchi “distesi dalle mura” di cui parla Francesco Albergotti, ma il tenente Wasilkowski e circa 20 soldati semplici uccisi, tra Terontola e Cortona, oltre ad altri 10 ufficiali (tra cui 2 maggiori e 5 capitani) e una trentina di soldati rimasti feriti (Memorie Militari del Dabrowski e documentazione locale). Una ventina i polacchi caduti prigionieri, alcuni dei quali trucidati brutalmente dai contadini, inferociti per gli incendi delle loro case e dei pagliai.

Dai registri dei Morti delle Parrocchie cortonesi, che vanno da Terontola a S. Eusebio, risultano 22 vittime cortonesi, di cui almeno 7 uccise nelle rappresaglie. Tra questi ci fu l’ottantenne curato di S. Marco in Villa.

Il mattino dopo, 14 maggio, i polacchi partirono presto, verso le 4, in direzione di Castiglioni e Arezzo.

Il 14 maggio 1799 fu una giornata molto dura e importante, sia per i polacchi sia per gli aretini. Scrive il Dabrowski nelle sue Memorie: “Il 25 floreal [14 maggio] il corpo è partito all’alba, tutto il giorno non abbiamo avuto altro da fare che appoggiare in ogni istante i reparti che difendevano i nostri fianchi e che quasi senza mai smettere hanno dovuto combattere con i ribelli.

Ci furono scaramucce alle Piagge, a Tavarnelle ed a Montecchio. Qualche ferito da ambo le parti e almeno due morti tra i polacchi.

Come abbiamo visto, da Castiglion Fiorentino erano stati inviati a Cortona i migliori combattenti e i meglio armati. Essi, però, per paura della ripresa delle azioni polacche contro la città, erano rimasti a presidiare le mura di Cortona. I dirigenti della locale insorgenza, si resero conto che tentare una difesa di Castiglioni sarebbe stato probabilmente un suicidio collettivo.

I popolani, più focosi, erano decisi a combattere. I maggiorenti, più realistici, considerato che “ad onta di aver più volte sonata la campana a foco, pochi furono i contadini che comparvero armati”, puntarono su una trattativa con i polacchi.

Nell’incertezza, i più paurosi intanto scapparono sui monti circostanti, mentre i più devoti si radunarono per pregare il Crocifisso miracoloso della Chiesa del Gesù.

Dal paese si sentivano già i tamburi polacchi, nella strada Regia, tra Montecchio e Castiglioni, mentre il fumo degli incendi testimoniava del pericolo incombente.

Tre persone coraggiose, presero in mano la situazione e decisero di trattare con il Dabrowski; furono il conte Orlando Paglicci, Giuseppe Ghizzi (nonno ed omonimo dello storico castiglionese) e Fiorenzo Gnagnoni.

I tre castiglionesi, accompagnati da un mercante di madonne di gesso e coroncine, originario di Barga e che per motivi di lavoro viaggiava spesso nella zona di Nizza, conoscendo così un po’ di francese, si incontrarono con il generale polacco alla Tavola di Sasso, nei pressi della Fornace (poco a nord dell’odierno Ponte della Nave, in via Adua).

Non ebbero difficoltà a convincere Dabrowski ad accettare la loro proposta: la Legione avrebbe percorso la nuova strada che passava in basso, a ovest del paese, reinnestandosi sulla strada per Arezzo alla Chiesa del Rivaio (attuale via Piave); i castiglionesi avrebbero portato alla chiesa del Rivaio vettovaglie, viveri e bevande per i soldati polacchi. Da certi documenti, risalenti al successivo giugno, al momento dell’ingresso delle truppe aretine in Castiglioni, vediamo che nei libri contabili del Camarlengo Comunitativo, c’erano degli elementi che facevano ipotizzare la mancanza di forti somme (già allora, a Castiglioni c’era un “buco” sul bilancio …). Probabilmente, fu pagata al Dabrowski anche una specie di indennità, per salvaguardare il territorio castiglionese, dove in effetti, non ci furono case bruciate e morti ammazzati.

Mentre i 4.400 polacchi e i loro alleati, sfilavano in basso, il generale Dabrowski ed i suoi più alti ufficiali entrarono in paese da Porta Romana, assieme ai tre castiglionesi. Poi, si recarono nel palazzo comunale. In omaggio agli ufficiali, alleati della Francia, furono liberati i pochi giacobini che erano nel carcere di Castiglioni.

Dalle Memorie del generale polacco veniamo a sapere anche un’altra vicenda, inimmaginata. I Castiglionesi, che avevano partecipato ad incontri con i dirigenti di Arezzo, al fine di coordinare la comune difesa dai polacchi, svelarono a Dabrowski il piano degli aretini. Gli raccontarono che i comandanti militari aretini, avevano preparato una forte linea di difesa nella gola dell’Olmo, dove aspettavano in forze i polacchi, armati anche di cannoni. Insomma, un bel doppiogioco, che valse a Castiglioni anche un elogio in un pessimo francese:

Liberté                                                       Egalité

Castiglione Fiorentino, le 25 Floréal an. 7°

Le Général de Division Dabrowski, Commandant le Corps Polonais en Italie, rend témoignage que la Commune de cet Endrois s’est comportée a son Passage de la maniere la plus amicale, et respondant au sistème d’une vraie et juste tranquillité.

Di questo elogio ne furono di sicuro a conoscenza, come mostrano alcune lettere tutt’oggi conservate negli archivi, sia il comandante francese di Cortona, che lo stesso generale Gaultier.

I Castiglionesi, presero due piccioni con una fava: salvarono il paese “dal saccheggio e dalla morte” e si procurarono un salvacondotto che sarebbe tornato utile l’anno successivo, quando ricomparirono i Francesi. Inoltre, partiti i polacchi, i dirigenti castiglionesi salvarono quattro loro sbandati e un disertore della Repubblica Romana, da fucilazione sommaria, rinchiudendoli nelle locali carceri; nei giorni successivi, li spedirono sotto scorta al comandante francese di Cortona (Guillot), ottenendo elogi da lui e anche dal generale Gaultier, da Firenze

Anni fa, durante alcuni lavori, per installare una cella telefonica nella base della Torre del Cassero, un tempo prigione comunale, in una fessura dell’intonaco fu trovato un filo di ferro, ripiegato a formare il nome JOZEF: Giuseppe in polacco. Uno dei quattro prigionieri del 1799?

Comunque, per cautelarsi e per dare fumo (anzi, nebbia) negli occhi degli aretini, i castiglionesi gridarono “al miracolo”, raccontando di una fittissima nebbia, fatta calare dal Crocifisso della Chiesa del Gesù, che avrebbe avvolto il paese, tanto da nasconderlo alla vista dei polacchi, i quali, ignari dell’esistenza di Castiglioni (!), se ne sarebbero passati in basso, verso Arezzo, senza colpo ferire.

Gli aretini saranno stati anche creduloni, ma non fino a quel punto e, come abbiamo detto, spulciarono ben bene le carte comunali, mettendo al fresco i presunti “trappoloni” (bei tempi!).

Ecco quanto scritto nelle sue memorie, dal Dabrowski:

“Kastiglione Fiorentino, paese fra le colline e circondato da mura, costretti ad aprire i portoni, dal momento in cui abbiamo cacciato i ribelli dalle loro posizioni circostanti ed abbiamo iniziato i preparativi per attaccare con forza la città. Passando da quella città siamo venuti a conoscenza che soldati sconfitti avevano preso posizione ad Arezzo, con alcuni cannoni, e ci impedivano il passaggio”.

Dunque, Dabrowski viene a conoscenza dei piani degli aretini e si rende conto che tentare di prendere Arezzo con la forza e senza cannoni, metterebbe a repentaglio la vita di molti suoi soldati. Probabilmente i castiglionesi, senza volerlo, salvarono molti polacchi e altrettanti aretini dalla morte. Infatti, per non far correre inutili pericoli ai suoi, il generale polacco decise di ingannare gli aretini e sganciarsi per andare direttamente verso Firenze.

Questi furono i piani del Dabrowski che, come Giulio Cesare, scriveva in terza persona: “ha dato ordine al colonnello Chamand di andare avanti con il II battaglione di fanteria e uno squadrone di cavalleria, per tenerli in scacco, e nel frattempo il Generale con il Corpo è andato a sinistra per prendere posizione sotto il Bastardo, fra Firenze e Arezzo”.

Quindi, il generale polacco pensò di mandare un’avanguardia, al comando di Chamand, verso Arezzo, per far credere agli aretini che le sue intenzioni fossero quelle di attaccare la città; intanto lui avrebbe fatto deviare il grosso della legione da Pieve a Quarto verso San Zeno ed il Bastardo (San Giuliano) per poi prendere la via Fiorentina e raggiungere Firenze.

Questo, invece, era il piano dei comandanti aretini: “il Comando Militare vide che la posizione del luogo da Vitiano ad Arezzo non poteva essere più opportuna per un’imboscata.

La strada per la quale dovea passare il nemico era dominata dal monte vicino rivestito di selve, di alberi, di vigne e di grani. Vi si potea ben nascondere gente armata priva di tattica, ma ben avvezza a tirare di mira. Furono pertanto mandati a quella volta il Comandante Brozzi con i più risoluti. Fu anche disposto di lasciar inoltrare il nemico nella gola tortuosa dell’Olmo 3 miglia distante dalla Città, ove la strada per lungo tratto è serrata e dominata da monti a destra e a sinistra tutti ben rivestiti. Qui si gli dovea far fuoco alle spalle ed ai fianchi. Tutte queste disposizioni furono messe in esecuzione con tutta prontezza” .

La mattina del 14 maggio 1799, centinaia di contadini armati attendevano fin dall’alba i polacchi, lungo la strada da Vitiano all’Olmo, nascosti dietro le siepi, fra i grani, dietro i muretti, sotto i ponti e in altri ripari, pronti a fare fuoco e a indietreggiare immediatamente, per ricaricare lo schioppo ad avancarica.

I Polacchi, ripartiti da Castiglioni, proseguivano per la strada Regia, in ordine di marcia, preceduti dai tamburi che ne marcavano il passo.

A metà mattinata del 14 maggio 1799, i primi soldati della Legione polacca del Dabrowski, arrivarono a Vitiano.

L’area, attualmente occupata dal centro di Vitiano, nel 1799 era poco abitata, non c’erano la chiesa e molte delle attuali case. Il Catasto granducale ci parla solo di campi seminativi e vitati, con aceri campestri e filari di viti “maritate”. A occidente della strada, c’era una “fabbrica” (officina di un fabbro) in cima alla salitella all’inizio dell’attuale paese, un centinaio di metri più avanti c’era l’antica osteria della Masina (accanto all’attuale bar). Poi, campi coltivati, fino al Ghetto, dove, a levante c’era un piccolo agglomerato, così avviluppato da giustificare il singolare toponimo. I proprietari: Albergotti, Sandrelli, Collegio Serristori, Rossi, Viviani e altri piccoli coltivatori diretti.

L’avanguardia del colonnello Józef Chamand aveva appena passato il bivio per la chiesa e il castello di Vitiano (oggi via del Barbino) e si apprestava a scendere la lieve discesa del Ghetto, poco prima del ponte sul Rio di Vitiano,quando incominciarono le fucilate che portarono alla prima fase di quella vicenda passata alla storia come la “battaglia di Rigutino”.

Ecco come raccontò l’episodio un contemporaneo: “… nel dì 14 (maggio n.d.a.) la campana del Pubblico (il Comune) annunziò la vicinanza del nemico. … Accorse in folla armato il contado, scortato da poca, ma coraggiosa cavalleria di zelanti patriotti, i quali per la via che da Arezzo conduce a Castiglioni, presso un luogo detto il Ghetto, investirono il Generale Dambrowski, che dopo vari colpi di fucile tirati dai contadini nelle imboscate, finalmente cadde rovesciato da cavallo per un colpo di sciabola scaricatogli da un giovane, Martino Romanelli del villaggio di Quarata.

Rimase ucciso parimente l’Alfiere la cui bandiera insieme col cappello del generale suddetto e col berretto di altro uffiziale del suo seguito parimente ucciso pende dalle pareti della cattedrale …”.

Il De Giudici precisa: “Sopra agili destrieri alcuni giovani aretini a spron battuto, e pieni di coraggio, andarono ad incontrare il nemico ad oggetto di spiarne gli andamenti e di avvertirne la città.

Incontrarono i Pollacchi verso Rigutino, sette miglia distante da Arezzo. Alcuni Uffiziali Pollacchi con pochi a cavallo precedevano il corpo della Divisione nemica di pochi passi. Furono questi attaccati dalla prima imboscata. I Giovani valorosi si avventarono con pistola e sciabola. Uno degli Uffiziali Pollacchi vi perdette la vita con qualche compagno. Egli era certo persona di alto affare.

Fatto il bel colpo i Giovani Aretini si videro addosso il forte dell’Armata nemica  e felicemente, senza alcuna offesa tornarono verso la Città a portarne l’avviso”.

Il generale Dabrowski nelle sue Memorie, accennando al tentativo di portare la Legione al Bastardo, annota: “I ribelli, accorgendosi del nostro piano, hanno deciso di disturbarci, attaccandoci con tutte le forze. Però inutilmente. Lo stesso giorno siamo arrivati nelle posizioni predestinate.

In quell’attacco morì il colonnello Chamand. Quando la notizia della morte di quell’ufficiale molto valoroso, amato da tutti – che fino ad oggi tutto il Corpo non riesce a dimenticare – è arrivata ai soldati, li ha infiammati di una tale rabbia che hanno ucciso qualche centinaio di ribelli e hanno fatto a pezzi il loro capo, strappandogli dalle mani il vessillo”.

Il prof. Pachonski, che conosce altri documenti polacchi, ricostruisce così l’avvenimento: “Il capo della I Legione, Chamand, con lo squadrone di cavalleria e il II battaglione delle legioni, procedeva avanti. Sembra che Chamand, vedendo la strada libera, si facesse avanti per orientarsi sulla posizione degli insorti assieme a quattro cavalieri … la versione del Commissario Reinhard dice che Chamand partì in veste di parlamentare, per discutere con gli insorti: tesi probabile ma poco verosimile.

Chamand fu ucciso a colpi di fucile per mano di Romanelli e data la superiorità degli avversari morirono con lui altri due suoi compagni, invece i due rimasti in vita si salvarono con la fuga. Chamand cadde da cavallo combattendo con la sciabola in mano. Romanelli, giudicando dal cappello con il gallone era convinto che si trattasse del generale stesso”.

Quindi, appare chiaro che l’uccisione del vice di Dabrowski fu un episodio fortuito, che vide protagonisti alcuni giovani aretini a cavallo, inviati in avanscoperta per “spiare” le mosse dei polacchi. Mentre si avvicinavano al Ghetto, sentirono i tamburi dell’avanguardia polacca, quindi si nascosero in una via laterale alla Strada Regia (forse, la via che portava verso la loc. Casale) e vedendo Chamand procedere a distanza dalla fanteria, solo con pochi compagni, tentarono l’agguato, riuscendo ad uccidere lui e due suoi compagni. Non ci fu nessun piano studiato a tavolino e nessun titolato “condottiero” a guidare sul campo l’azione.

Padre Arturo Buresti, nato e cresciuto in loc. Il Ghetto, mi raccontava della memoria ancora viva, quando lui era giovane, tra gli abitanti del luogo, dello scontro con i polacchi. Nel campo subito dopo le case, a levante della strada, la gente del luogo raccontava di ossa umane affioranti dopo le arature. In effetti, da ricognizioni effettuate una quindicina di anni fa, vi sono stati ritrovati numerosi frammenti di ossa craniche (parietale, occipitale, mascellare …), di arti e di altre parti scheletriche, oltre a un proiettile in piombo da fucile da guerra e un frammento dell’elsa di una sciabola. Guido Stocchi, grande esperto di armi antiche, giudicò compatibili con l’epoca dello scontro, entrambi i reperti.

Dopo l’episodio del Ghetto, la marcia dei polacchi verso l’Olmo, fu tutta un calvario e i legionari si trovarono sotto le innumerevoli schioppettate sparate dai popolani aretini, appostati lungo il loro percorso.

Arrivati nell’area del Rio Grosso di Rigutino – alla fine dell’attuale paese, verso Arezzo – i polacchi trovarono anche una barricata, difesa da molti popolani provenienti da varie zone dell’aretino. Si dovettero aprire il passo con aspri combattimenti. Dai Registri dei Morti delle parrocchie aretine, vediamo che in quello scontro, persero la vita quattro popolani di Rigutino, uno di Ottavo, uno di Policiano, uno di Santa Flora a Torrita e uno di Sant’Agata alle Terrine, oltre a un ferito di Sant’Anastasio. Due di essi erano contadini della Fattoria di Frassineto e uno della Fattoria del Collegio Serristori di Ottavo.

Al Rio Grosso vi furono violenti scontri, che poi sfociarono in una vergognosa rappresaglia, alla “nazista”, che coinvolse undici poveri vecchi (tra i 70 e i 92 anni!) sorpresi nelle proprie abitazioni per il solo motivo che, a causa dell’età e degli acciacchi, non erano potuti scappare via. I polacchi assalirono tutte le case di Policiano, spingendosi fin sulle pendici del Castello (Loc. Volpaia) e chi trovarono ammazzarono.

Scrisse sulla vicenda Enzo Droandi, che di stragi se ne intendeva: “si è di fronte ad una vera rappresaglia militare, oscenamente illegittima”. Ricordo quando nel maggio 1999, il prof. Zaboklicki entrò a visitare la Mostra sul “Viva Maria”, a Rigutino; a lui, che conosceva solo la versione polacca, dove si parlava di “ribelli” uccisi, nel leggere i nomi delle vittime, con accanto l’età e la modalità della morte (spesso “nel suo letto”), si inumidirono gli occhi. Questo per ricordare, ancora una volta, che è sempre meglio non accontentarsi di una sola versione dei fatti.

Un testimone ci racconta che i polacchi, “irritati parte dalla perdita del Generale, parte dalle fucilate … incominciarono a commettere i più orribili eccessi. Incendiarono case adiacenti alla strada e pagliai, roppero ziri da olio, aprirono botti da vino, e dopo averne tracannato senza misura le lasciarono aperte. Uccisero impotenti che trovarono per entro le case di dove portarono via vesti, panni, lini, vino, rame, giumenti, vaccine, ferro e tutto ciò che loro fu più a grado. Entrarono nella chiesa di S. Anastasio (Olmo) presso la Dogana dove stracciarono parati sacri, portarono via vasi sacri, malmenarono sacre immagini e reliquie e commessero enormi sacrilegi contro il SS. Sacramento dopo aver fatto lo stesso anche nella chiesa di Pieve a Quarto”.

Dunque, un grosso reparto di un esercito straniero in ritirata, supportato da parecchi elementi italiani; bande di guerriglieri che – singolarmente e/o in gruppi – cercano di disturbarlo, con attacchi repentini, imboscate, cecchinaggio; il reparto che, impossibilitato a fermare gli attacchi dei “ribelli”, si abbandona a saccheggi, incendi e stragi di impotenti. Si replicherà 145 anni dopo, con tedeschi invece di polacchi, ma con ancora elementi italiani a dare manforte.

Abbiamo cercato di capire quante vittime ci furono negli scontri e nelle rappresaglie fra il Ghetto e l’Olmo. Dabrowski nelle sue memorie accenna all’uccisione di “qualche centinaio di ribelli”. Il Pachonski precisa che i polacchi “attaccarono gli insorti con tanto furore facendo 500 vittime”.

Le fonti aretine ci dicono che “da Cortona fino al Bastardo ne mancarono (di polacchi uccisi) circa cinque o seicento e molti ne rimasero gravemente feriti”. Un recente autore, parla di circa 1.000 polacchi morti (!). Ovviamente, sia le fonti aretine che quelle polacche hanno esagerato, attribuendo al nemico perdite 10-20 volte superiori a quelle reali. Sappiamo infatti, che i morti aretini, tra Vitiano e Olmo furono meno di 25. Dabrowski non parla delle perdite polacche, ma di sicuro non furono quelle sopra citate.

Purtroppo, nei paesi interessati dagli scontri, ancora non vi erano cimiteri pubblici e i morti venivano sepolti all’interno delle chiese o sull’antistante sagrato. Ma, i morti polacchi, che avevano profanato chiese ed Eucarestia, furono ritenuti “senza dio”, quindi non registrati dai parroci e sepolti qua e là. Cronisti contemporanei agli eventi, parlano di caduti polacchi caricati su carri e portati via dai compagni; scrivono anche di roghi in cui furono poi bruciati i cadaveri, per evitare eventuali scempi. Oltre alle ossa di alcuni morti, probabilmente polacchi, ritrovate al Ghetto, conosciamo due tombe rinvenute anni fa a Policiano, in loc. Oliveta, che per la tipologia delle tegole con cui erano stati coperti i cadaveri, devono essere assegnate all’età moderna: caduti polacchi?

La sera del 14 maggio, mentre continuavano le razzie, i polacchi si accamparono al Bastardo e qui curarono i loro feriti

Erano passate da poco le due della notte del 15 maggio quando Dabrowski ordinò ai suoi legionari di rimettersi in marcia verso Firenze. Sappiamo che i loro feriti “trasportati erano ne’ carri, ma fu spaventevole la quantità esorbitante di fascie e panni insanguinati che la truppa lasciò nel campo del Bastardo” .

Gli aretini seguirono a distanza i polacchi e ogni tanto li attaccavano. Fu così che nei pressi del bosco di Malafrasca – fra la Stazione di Laterina e Bucine – Dabrowski preparò un tranello: divise la colonna in tre sezioni e cercò di accerchiare gli aretini. Ne nacque un ennesimo scontro e almeno 3 giovani delle Bande aretine, originari di San Giustino, vi furono fatti prigionieri e, quindi, fucilati.

Il passaggio dei polacchi colpì profondamente i nostri antenati che, già subito dopo l’evento, lo perpetuarono in stampe, scritte e lapidi. Il ricordo poi, si è tramandato fino ai giorni nostri. Curioso il fatto, raccontatomi da mio padre e da altri testimoni, che durante l’ultima Guerra, al vedere alcuni soldati polacchi assieme agli Alleati, che avevano su una manica la scritta “POLAND”, certi contadini si allarmarono dicendo “Quelli sono cattivi, sono polacchi …”.

L’apparente fuga dei 4.400 veterani polacchi di fronte agli improvvisati soldati aretini, creò immenso entusiasmo ad Arezzo. Gli aretini non sapevano che il Dabrowski aveva già deciso di lasciar perdere Arezzo e dirigersi a Firenze. Il fatto poi, che in tasca a Chamand, fosse ritrovata la lettera del Gaultier al Dabrowski, con i severi ordini da applicare contro Cortona e Arezzo, confermò la sensazione di aver scampato un gravissimo pericolo. Ci si chiese: come era potuto accadere? Sarà stata la Madonna del Conforto ad aiutare gli Aretini? Ma, se la Madonna era con Arezzo, chi avrebbe potuto fermare la sua marcia?

Ecco, allora, come lo stesso Commissario Reinhard si rese conto che, il passaggio della Legione polacca: fece crescere enormemente l’orgoglio dei ribelli. Le vie della conciliazione e quelle delle minacce furono volta a volta impiegate. Il vostro commissario (Reinhard, n. d. a.) con decreto del 29 floreale e il generale in capo Macdonald con due decreti del 3 pratile ordinarono a queste communi di abbassare le armi e di ricevere la guarnigione francese, sotto la minaccia di essere distrutte e rase al suolo. Queste minacce che non ebbero effetto aumentarono l’audacia degli aretini. Essi fecero delle incursioni nei comuni circostanti prelevando grani, bestiame, armi e casse pubbliche” .

Santino Gallorini

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